Chiesa
L’attenzione verso la vita reale è alla base del pensiero del nuovo dottore della Chiesa, John Henry Newman. Quando venne beatificato da Benedetto XVI e poi proclamato santo da Papa Francesco ci si rese conto che quel cammino anche filosofico, attraverso soprattutto Aristotele, era qualcosa di assai più complesso.
Ce ne rendemmo conto soprattutto quando uscì per Jaca Book il libro “Newton poeta” (2010), che raccoglieva non solo liriche, ma anche un poemetto e riflessioni critiche, anche se un altro volume che ci aiuta a comprendere meglio lo sprofondamento nell’essere del nuovo dottore della Chiesa, “Il cuore del mondo” (BUR, 1994), ci suggerisce come l’ansia di Dio vada oltre le forme e le categorie. Uomo di grande intelletto, ma anche amante del silenzio, legato a una cultura razionale, se con questa categoria vogliamo intendere l’alleanza profonda e non formale con la ricerca della fonte prima.
E questo valeva anche per l’arte: non amava quella fredda, raziocinante, programmatica, fine a se stessa, ma quella in cui si avvertiva la ricerca del Tutto: “Gli elaborati trastulli dell’arte di maggior fama/ sono privi di vigore, freddi e muti”.
Certamente Aristotele, quindi, ma in un cammino in cui le varie forme della conoscenza si avviano nella ricerca di un’unità perduta. Come scrisse Paolo Gulisano nel suo “J. H. Newman. Profilo di un cercatore di verità” (Ancora, 2010), il suo passaggio al cattolicesimo dall’anglicanesimo avvenne alla luce di un pensiero forte e indipendente, tanto indipendente da scatenare reazioni da parte non solo di chi era rimasto nella Chiesa d’Inghilterra.
Anche perché nei suoi sermoni, pubblicati da noi da Lindau (“Aprire il cuore alla verità”, 2020), ciò che emerge è soprattutto la sua capacità di parlare al cuore degli uomini, di tener conto anche del dubbio e della presenza del male che in certi momenti minaccia il percorso di ognuno.
Per questo egli andava contro alcune derive che vedevano nell’affermazione sociale un segno della predilezione di Dio: “Il denaro è una specie di creazione e dà a colui che lo acquisisce, ancor più che al suo possessore, l’immaginazione di un suo proprio potere, tendendo a fare così un idolo di se stesso”. Teniamo conto che queste parole furono scritte quando Newman era ancora un predicatore anglicano: il che la dice lunga sulla sua indipendenza di giudizio e di analisi. Anche per questo il sermone di cui stiamo parlando è stato ripubblicato a parte da Jaca Book, con la prefazione di Andrea Riccardi e una nota finale di Inos Biffi, con il titolo “Il pericolo della ricchezza”, e siamo nel 2015, a dieci anni di distanza, altra prova di quanto il pensiero di Newman sia limpidamente – e drammaticamente – attuale.
Anche perché John Henry andava in controtendenza rispetto al pensiero dominante, con una visione (siamo nel 1835) simile a quella di Dickens – guarda caso “Oliver Twist” esce l’anno dopo questo sermone – precedendo anche l’attacco allo sfruttamento dei poveri che si preparava a fare John Ruskin nel suo recupero di un’età in cui lavoro e uomo erano in armonia.
Ma per Newman il problema era che quei tempi tradivano le parole di Gesù e il senso profondo dei Vangeli. Quasi due secoli dopo un Pontefice affronta quel medesimo problema, i poveri, nella sua esortazione apostolica “Dilexi Te”. Il che ci suggerisce come molta strada debba essere compiuta, e la direzione giusta, quella evangelica, passa anche attraverso la testimonianza di John Henry Newman, nuovo dottore della Chiesa.