Idee
Tuwani è un villaggio talmente piccolo – o talmente segregato – che il suo nome non compare mai su Google Maps. Puoi zoommare quanto vuoi, il segnalino rosso rimane lì, ben conficcato nel territorio semi desertico poco a sud di Hebron, ma il nome del posto dove vivono 400 palestinesi – minacciati quotidianamente dai coloni israeliani di Ma’on e da quelli del vicino insediamento (illegale anche per Israele) – non si può mai leggere sullo schermo del pc.
Tuwani è uno dei dodici villaggi che formano la piccola regione di Masafer Yatta, 2.800 abitanti in tutto nella Cisgiordania meridionale, a una settantina di chilometri da Gaza City. Questa manciata di case sparse tra rocce, sabbia e una rada vegetazione è balzata all’onore delle cronache dopo che il documentario che ne racconta le vicissitudini è stato premiato con il premio Oscar: è proprio tra le strade polverose che Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor ed Hamdan Ballal hanno girato in cinque anni No other land.
Tutta quest’area era stata inserita nello Stato di Palestina secondo i confini stabiliti dall’armistizio di Rodi firmato nel 1949 da Israele e da tutti gli stati arabi confinanti. Tuttavia dopo gli accordi di Oslo del 1993 è entrata nell’Area C, demograficamente a prevalenza palestinese ma sotto il controllo civile e militare israeliano. Questa fu la conseguenza dell’occupazione avvenuta nel 1967 dopo la guerra dei Sei giorni e dopo che negli anni Ottanta il governo israeliano nominò l’intera area “Zona di fuoco 918”, adibita a scopi militari e interdetta ai civili.
Oggi sono decine le colonie sovvenzionate dal Governo di Tel Aviv e protette dall’Israel Defence Force (Ido) che sorgono a Masafer Yatta. Gli attacchi dei coloni alla popolazione palestinese si sono susseguiti negli anni con episodi controversi come il via libera della Corte suprema israeliana nel 2022 al trasferimento forzato di un migliaio di persone da quest’area che l’Unione Europea ha stigmatizzato al pari delle Nazioni Unite che hanno definito l’operazione come una seria violazione del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani, avvertendo anche che il trasferimento coatto potrebbe configurarsi come crimine di guerra.
Dopo il tragico attentato di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha portato alla morte di 1.200 ebrei, gli attacchi dei coloni alle persone e alle abitazioni si sono intensificati, incendiando le proprietà oppure pompando acqua di fogna nell’acquedotto.
Andare fa la differenza
Dietro a un elenco di fatti e di numeri, tuttavia, la vita continua. L’attenzione costante su Gaza degli ultimi mesi ha toccato la coscienza delle opinioni pubbliche e riempito le piazze venete, italiane, europee e occidentali, ma le manifestazioni di qui, non rendono l’idea della quotidianità che si vive lì, concretamente, da decenni. Per questa ragione, tra il 29 ottobre e il 1° novembre scorsi, una piccolo gruppo di amministratori locali veneti ha compiuto un breve viaggio in loco e ha toccato con mano la segregazione che il popolo palestinese patisce ogni giorno. Della pattuglia hanno fatto parte l’assessora alla pace del Comune di Padova Francesca Benciolini, la vicesindaci di Camponogara Vania Trolese, il sindaco di Zugliano Sandro Maculan, l’assessore di Vicenza Giovanni Selmo, l’assessore di Verona Jacopo Ruffolo, Giovanni Koprantzelas assessore a Santorso (Vi) e Giorgia Macrelli assessora del comune di Cesena. Si sono affidati all’esperienza degli attivisti di Operazione Colomba, progetto della Comunità Papa Giovanni XXIII, per quattro giorni di ascolto di testimonianze e di incontri.
«Il desiderio di partire è nato ascoltando le testimonianze di volontari e abitanti della Cisgiordania, fin dallo scorso febbraio – racconta Francesca Benciolini – Di fronte alla situazione della popolazione palestinese ci siamo chiesti che cosa potevamo fare noi e la risposta è stata univoca: “Venite a trovarci, toccate con mano che cosa succede ogni giorno”. Abbiamo quindi raccolto il mandato delle piazze pro Gaza di questi mesi e anche delle mozioni che numerosi consigli comunali del Veneto hanno votato nei due anni da quando è scoppiata la guerra che oggi appare congelata in un fragile cessate il fuoco».
Questo viaggio rappresenta un esperimento che potrebbe aprire la strada a una Rete di Comuni veneti per la pace: «Siamo amministratori parte del Coordinamento degli enti locali per la pace e i diritti umani che organizza ogni anno la marcia Perugiassisi e abbiamo decisori muoverci come veneti dopo aver ascoltato molte testimonianze – continua Sandro Maculan – Le parole del sindaco di Betlemme Maher Canawati all’inaugurazione del Parco della pace a Vicenza a settembre ci hanno toccato molto, ma andare in loco fa la differenza, per noi e anche per la popolazione che percepisce la vicinanza fisica, con il valore aggiunto che essendo amministratori locali abbiamo la possibilità di sensibilizzare la nostra gente al problema che vivono quelle famiglie di pastori».
Per Vania Trolese si è trattato di un ritorno, dopo un viaggio nello scorso agosto e uno nel 2024. «Condividere questa esperienza con dei colleghi sindaci e assessori è assai significativo – commenta – Dopo esserci presi una serie di responsabilità votando mozioni e studiando il tema della resistenza non violenta, abbiamo avuto la possibilità di conoscere fino in fondo le dinamiche che si vivono sul territorio. Nessuno tra i leader locali ha chiesto ai nostri Comuni soldi o altre risorse, ciascuno di loro ci ha proposto di condividere iniziative e progettualità, collaborando alla pari, riconoscendosi a vicenda».
«Non avvicinatevi a quell’albero»
Negli ultimi due anni, il Governo israeliano ha installato mille cancelli sulle principali via di comunicazione che uniscono i villaggi palestinesi in Cisgiordania. Alcuni, di colore arancione rimangono sbarrati, altri, gialli, vengono chiusi dall’esercito in base agli ordini. Ma la segregazione priva la popolazione anche di riferimenti culturali e sociali importanti. «Non appena abbiamo messo piede a Tuwani, i volontari di Operazione Colomba ci hanno subito avvertiti di non andare al grande albero che si trova tra il villaggio e l’insediamento illegale – spiegano gli amministratori – Un tempo rappresentava un ritrovo per la popolazione, magari a fine giornata, dopo il lavoro, oggi è un obiettivo costante dei coloni: non appena qualcuno si avvicina parte una salva di spari. Quanto abbiamo visto in quei giorni conferma ciò che da più parti si sta denunciando: il governo israeliano, oltre all’azione genocidiaria in atto a Gaza, nel resto del territorio sta realizzando una sistematica operazione di sostituzione etnica, sottoponendo la popolazione palestinese a un drammatico regime di apartheid e privazione di diritti».
Tra le tappe toccate anche l’Aida camp, il campo profughi di Betlemme. Oggi appare come un quartiere cittadino, tuttavia lì risiedono profughi fin dal 1948 che non hanno mai più potuto tornare a casa per la distruzione dei loro villaggi. «Abbiamo toccato con mano che cosa significa il muro, di cui tutti eravamo a conoscenza – riprende Benciolini – Abbiamo ascoltato la docente universitaria il cui figlio impiega due, tre o quattro ore per andare all’università a Gerusalemme, l’unico in famiglia ad avere il permesso di lavoro è il padre, tutti gli altri devono sottoporsi alle file e alle minacce costanti ai check point».
La violenza non paga
Nonostante tutto questo, «non abbiamo visto cose terribili, ma meravigliose» assicurano gli amministratori. Hafez – leader del villaggio di Tuwani e fratello dello storico sindaco Saber Huraini, ora morto, che ha dato vita a una forte relazione anche con un gruppo di rabbini per la pace – ha spiegato chiaramente che solo la non violenza paga nella situazione in cui vivono i palestinesi. La non violenza permette la vicinanza di volontari e attivisti internazionali, tra i quali italiani e israeliani, e delle Ong. Molti di questi volontari accompagnano ogni giorno contadini e allevatori nei campi filmando tutto ciò che avviene, anche frapponendosi tra coloni e popolazione in caso di attacchi, come avvenuto che nei giorni in cui erano presenti gli amministratori veneti, i quali hanno dormito nella guest house di Tuwani la quale tre giorni prima del loro arrivo ha ricevuto un ordine di abbattimento. «In nome della sicurezza, in zona militare, tutto viene abbattuto e sradicato – aggiunge Maculan – il 90 per cento delle richieste edilizie della popolazione viene bocciata» rendendo pertanto impossibile lo sviluppo dei villaggi e la crescita delle famiglie».
Oggi la Cisgiordania e Betlemme, più che di proclami e divisioni sociali, hanno bisogno di presenza, di vicinanza fisica, della ripresa dei pellegrinaggi. Quest’anno, proprio grazie al cessate il fuoco, forse la città potrà festeggiare il Natale dopo due anni di guerra che era seguita a due anni di pandemia. Andare nella terra dove è vissuto Cristo, oggi permette di condividere uno scorcio di vita con chi vive da decenni nella guerra e nell’odio ma continua a rimanere. Perché, anche se non compare su Google Maps, non c’è un’altra terra.
La Rete veneta per i diritti umani e la pace non è ancora formalizzata, ma muove ora i suoi primi passi attraverso la partecipazione a iniziative e manifestazioni per la pace e la resistenza non violenta degli amministratori dei Comuni più sensibili a manifestare vicinanza alle popolazioni più esposte alle numerose crisi internazionali.
Si tratta della rappresentanza veneta del Coordinamento nazionale giudato da Flavio Lotti che ogni anno organizza la marcia PerugiAssisi.
Molti dei volontari che sostengono i palestinesi con la loro presenza provengono dall’Europa, ma ci sono anche israeliani, come gli avvocati dell’associazione Teyush che hanno fatto propria la causa.
Alcuni di questi amministratori, si riuniranno domenica 16 novembre alle 20.30 allo Zagorà di Zugliano per raccontare agli interessati l’esperienza vissuta tra il 29 ottobre e il 1° novembre in Cisgiordania.