Idee
Sabato 8 novembre ho partecipato all’ingresso di un caro amico, nuovo parroco in una parrocchia della nostra Diocesi. Una celebrazione intensa, piena di volti, di attese, di speranze, di gioia, ma anche una celebrazione in cui era tangibile quanto sia impegnativo, oggi, il ministero sacerdotale: una chiamata che chiede tutto, spesso accompagnata da solitudini nascoste.
I sacerdoti sono figure centrali della vita ecclesiale: sono amati, stimati, richiesti, ma anche criticati, attaccati e, talvolta, dimenticati. Li cerchiamo nei momenti importanti della nostra vita – per i sacramenti, per un consiglio, per un conforto – ma chi si prende cura di loro? Chi ascolta la loro fatica, la loro umanità, le loro notti di dubbio o di scoraggiamento?
Dietro ogni prete ci sono giorni di grazia e giorni di stanchezza, momenti di entusiasmo e di fragilità; tuttavia nella cultura dell’efficienza, che talvolta contagia anche la Chiesa, il rischio è quello di considerare i sacerdoti come “funzionari del sacro”: finché tutto va bene, li si esalta; quando inciampano o si spengono, li si sostituisce. Ma la Chiesa non può ridursi a un’organizzazione dove si cambia un ingranaggio per far ripartire la macchina. È un corpo, una comunione, una famiglia e in una famiglia nessuno è “usa e getta”. In una famiglia molto si cura con la vicinanza e l’affetto.
Il Vangelo non cresce grazie ai programmi, ma attraverso i volti, eppure, a volte, la pastorale sembra più attenta alle agende che alle persone.
Da qui l’urgenza, espressa anche da papa Francesco, di una Chiesa più empatica, missionaria e non autoreferenziale, capace di prendersi cura dei suoi ministri, vescovi, presbiteri o diaconi che siano. Una comunità che non giudica la fedeltà in base ai risultati, ma che accompagna, ascolta e sostiene.
Essere una Chiesa «attenta ai volti e meno ai programmi» significa tornare all’essenziale: la relazione. Significa saper rallentare, guardarsi negli occhi, condividere la fatica e la gioia del cammino: è questa la forma più alta di testimonianza: non l’efficienza, ma la fraternità.
Partecipando all’ingresso del nuovo parroco, ho pensato che la vera forza di una comunità non sta nella quantità delle iniziative, ma nella capacità di custodire chi si dona. Custodire non è proteggere o riparare da tutto, ma accompagnare e accogliere con amore e gratitudine. È costruire relazioni che sostengono, non che consumano e logorano per questioni a volte poco rilevanti.
Se vogliamo una comunità credibile, dobbiamo imparare a prenderci cura di chi ogni giorno si prende cura di noi, perché i sacerdoti non sono eroi solitari, ma fratelli. E una comunità e una chiesa che sa custodire i suoi fratelli è una comunità e una Chiesa che sa davvero mostrare al mondo il volto misericordioso e gioioso di Dio.