Il caso Garlasco è diventato il vero reality del 2025: tra social e talk show, il delitto di Chiara Poggi vive nei media stessi. Serve una nuova etica della speranza nel raccontarlo.
Dobbiamo parlare di Garlasco. Dobbiamo parlarne non perché lo fanno tutti, ma proprio dei motivi per cui tutti lo stiano facendo. L’omicidio di Chiara Poggi, pur essendo stato commesso in un Comune del pavese oltre 18 anni fa, il 13 agosto 2007, è il vero caso mediatico del 2025. In un gioco di continui rilanci e sviluppi tra media tradizionali e nuovi media, Garlasco è costantemente in trending topic sui social e l’oggetto della discussione dei salotti televisivi, universi distinti che però si incrociano continuamente: i crime influencer del web commentano la vicenda che ha proprio come palcoscenico i media tradizionali, mentre salotti televisivi e pagine di giornale ospitano rivelazioni e indiscrezioni che sul web nascono e aggregano massa critica. Il caso Garlasco è un ricco buffet in cui chiunque può trovare pane per i suoi denti: l’omicidio, la guerra delle perizie, i depistaggi, l’ombra della malagiustizia, i retroscena fantasiosi su sette sataniche, massoneria e abusi in un santuario, ma soprattutto il lato umano dei personaggi, su cui vengono proiettati gli archetipi della letteratura e le tifoserie divise tra colpevolisti e innocentisti, eterno ritorno del bipolarismo all’italiana. Garlasco è un caso mediatico non perché raccoglie l’attenzione dei media, ma perché ha nei media il palcoscenico in cui si svolge. Interviste, rivelazioni, dichiarazioni raccolte a tradimento ad avvocati ubriachi (sì, è successo anche questo) portano avanti la vicenda quasi quanto le perizie secretate o il lavoro dei magistrati. Se il prototipo dei reality show, il Grande Fratello, quest’anno è a rischio chiusura anticipata per i bassi ascolti, il reality di Garlasco ha più successo che mai. Garlasco edizione 2025 è la perenne attesa di una vicina svolta in cui verrà finalmente fatta giustizia, in un mondo di cui i media stessi contribuiscono a dare una visione disperata e disperante. Proprio per questo coltivare la speranza dovrebbe essere oggi il punto centrale della deontologia dei comunicatori.