Idee
Negli ultimi anni alcuni laboratori hanno iniziato a utilizzare cellule cerebrali umane coltivate in vitro come elementi di calcolo, in una forma di “biocomputing” che affianca o sostituisce i tradizionali transistor in silicio. L’idea nasce dai limiti ormai raggiunti dai microprocessori attuali: consumi elevati, dissipazione termica, difficoltà a integrare milioni di componenti in spazi sempre più ridotti. Il cervello umano, invece, compie un’enorme quantità di operazioni con un consumo energetico minimo, grazie all’organizzazione altamente connessa e adattiva dei neuroni. Da qui la tentazione: replicare quel modello biologico per ottenere macchine più efficienti e capaci di apprendere.
Ne è esempio l’iniziativa della startup svizzera FinalSpark, che coltiva minuscoli organoidi cerebrali derivati da cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC). Si tratta di minuscole strutture di neuroni ottenute riprogrammando cellule adulte, come quelle della pelle, per farle tornare allo stadio staminale e poi guidarle a svilupparsi come cellule del cervello. Questi piccoli agglomerati di neuroni, posti su chip e interfacciati con elettrodi, sono in grado di ricevere stimoli elettrici e restituire segnali organizzati. Alcuni sistemi simili – come il già noto “DishBrain” australiano – hanno mostrato addirittura capacità di apprendere compiti semplici, come reagire a stimoli in un videogioco elementare. Siamo ancora lontani da qualsiasi forma di mente o coscienza, ma il fenomeno indica una direzione di sviluppo rilevante.
Dal punto di vista bioetico, l’uso di cellule derivate da iPSC rappresenta un primo elemento di tranquillità: queste cellule, pur essendo biologicamente umane, non provengono da embrioni e non appartengono più alla corporeità personale del donatore. Sono dunque materiali legittimi da un punto di vista etico, se usati nel rispetto del consenso informato e della finalità di ricerca. Tuttavia, proprio il carattere innovativo di questi esperimenti apre un insieme di interrogativi più profondi, che riguardano il significato antropologico della mente e del corpo umano.
Una prima questione riguarda la funzione assegnata a queste cellule. Trasformare neuroni umani in componenti di calcolo significa attribuire loro un ruolo puramente strumentale, radicalmente diverso da quello che avrebbero nell’organismo di origine. Ciò non è di per sé illecito, ma obbliga a interrogarsi su una possibile deriva culturale: l’idea che ciò che è “umano” in senso biologico possa essere trattato come materiale tecnico, al pari del silicio. È un salto simbolico che potrebbe contribuire a una visione riduzionista dell’intelligenza come semplice funzione neuronale trasferibile, indipendente dalla persona e dalla sua unità psico-corporea.
Un secondo interrogativo riguarda la complessità crescente degli organoidi. Oggi sono strutture estremamente semplici, lontanissime da un cervello umano; ma la ricerca tende naturalmente a potenziarle, aumentandone dimensioni e connettività. Se un giorno dovessero manifestare forme elementari di sensibilità o di apprendimento spontaneo, sarebbe necessario stabilire limiti etici chiari, per evitare di creare entità biologiche a cui attribuire funzioni senza possibilità di tutela. Non si tratterebbe di persone – mancando corpo, relazione e autocoscienza – ma il principio di precauzione impone attenzione.
Infine, esiste una questione più generale: il rapporto tra tecnica e umanità. La potenza della tecnologia ci permette oggi di utilizzare parti del nostro stesso patrimonio biologico per costruire macchine che apprendono. È una conquista affascinante, ma richiede di preservare il valore simbolico e antropologico del corpo umano, evitando che l’umano – come specie, non solo come individuo – venga percepito come una riserva di materiali utili alla produzione industriale.
Il biocomputing offre prospettive straordinarie, e i primi risultati mostrano potenzialità reali. Ma il suo sviluppo dovrà procedere all’interno di un orizzonte etico ben definito, che riconosca la dignità della persona, distingua chiaramente ciò che è umano biologicamente da ciò che è umano in senso personale, e sappia fissare limiti quando l’innovazione rischia di oscurare le domande fondamentali su chi siamo e su cosa significhi davvero pensare.