Fatti
In difficoltà, eppure con la voglia di tenere duro e, se possibile, risalire la china. Il comparto vitivinicolo nazionale appena passato il termine dell’annata agraria, tira le somme, si guarda indietro ma soprattutto cerca di capire come andare avanti.
Nel giro di pochi giorni, dalle imprese del settore sono arrivate le indicazioni per capire, numeri alla mano, in che situazione sia davvero quello che forse è il più ricco comparto dell’agroalimentare nostrano.
Così, l’Osservatorio Federvini (che raccoglie le imprese dei vini, degli spiriti e degli aceti) parla di “una filiera che conferma la propria solidità strutturale e che, pur muovendosi in un contesto internazionale particolarmente complesso, dimostra di saper intercettare nuove traiettorie di consumo”. Un modo diplomatico per affermare che pur tra mille questioni, le imprese in qualche modo “tengono” i mercati. L’associazione, tuttavia, non si esime dal dichiarare onestamente che si è davanti ad “una ridefinizione della geografia dei consumi, sia fisica che comportamentale” e che “la flessione negli Stati Uniti era attesa e va letta come parte di una dinamica commerciale più ampia, non nei termini di un arretramento strutturale”. Stando sempre a Federvini, al di là dei dazi e dei bisticci di mercato, “la vera notizia è la trasformazione della domanda: assistiamo al passaggio da un consumo di abitudine a un consumo di scelta, dove la variabile determinante non è più la frequenza, ma la qualità dell’esperienza”. Più qualità, dunque, e meno, molto meno, quantità. Tutto senza dimenticare alcune situazioni delicate, come quella Usa. Sempre il rapporto, curato da Nomisma e TradeLab, indica per esempio che il mercato statunitense abbia registrato una “fisiologica contrazione, con il vino a -4,8% a valore e gli spiriti a -5%, da interpretare come il naturale riassorbimento dell’eccezionale picco di ordini verificatosi nel primo trimestre per anticipare i dazi”; ma anche che i vini italiano hanno comunque reagito meglio di quelli del resto della concorrenza. Emergono, poi, “segnali di vitalità da mercati alternativi: la Germania incrementa l’import di vino italiano dell’8,8%, il Brasile dell’8,7%.
Comparto che, quindi, tenta quello che in Borsa si indica come “rimbalzo”, ma che deve fare i conti con un 2024 non eccezionale. Un altro studio, questa volta riportato dall’Unione italiana vini (Uiv) e reso noto sempre in questi giorni, racconta di “un 2024 in lieve crescita, ma non per tutti”. Poche parole per dire di tutta l’incertezza che avvolge il settore. L’istantanea scattata dall’annuale report sui bilanci delle imprese del vino stilato Studio Impresa – Management DiVino insieme al Corriere Vinicolo, fotografa da un lato un mondo del vino capace di adattarsi strategicamente ad un contesto sempre più difficile e, dall’altra, un settore che avanza a diverse velocità. Anche qui pochi numeri servono per capire molto. L’ultimo esercizio – viene spiegato – si è chiuso con un complessivo +2% dei ricavi sui risultati 2023, ma 415 imprese sulle 877 analizzate hanno perso redditività. La situazione sembra cambiare soprattutto in base alla dimensione delle aziende: a registrare i risultati migliori (+8,4% l’aumento sui volumi dei ricavi nel triennio 2022-2024) sono infatti le grandi imprese con più di 50 milioni di ricavi che, pur rappresentando solo il 6,27% del campione, realizzano più della metà dei 13,4 miliardi di euro complessivamente registrati dall’indagine per il 2024. Mentre diminuiscono molto (-9,9%) le aziende della fascia compresa tra 10 e 20 milioni di euro. Le imprese sotto i 10 milioni di euro, pur arginando le perdite nel triennio, rappresentano il 71% del campione ma esprimono solo 17% dei ricavi del comparto.
Le indicazioni generali che emergono da questi dati, al di là dell’incertezza, appaiono essere piuttosto chiare. Gli osservatori attenti del comparto, parlano della “necessità di una riforma strutturale del settore per sostenere la competitività dell’intero comparto”. Che significa avere imprese più grandi, efficienti, ben gestite. Lamberto Frescobaldi, presidente di Uiv, ha chiaramente sintetizzato tutto: “Piccolo è bello è uno slogan che dobbiamo lasciare al passato: le imprese tricolori, che hanno una superficie media del vigneto di 2,3 ettari contro i 10,5 francesi, devono puntare a un ulteriore irrobustimento, perché è chiaro che le dimensioni contano anche in ottica di attivazione di economie di scala. L’auspicio è di poter incentivare le aggregazioni, anche con un intervento pubblico”. Il problema è che forse il mercato corre più velocemente delle imprese.