StorieI primi di marzo di duecento anni fa il padovano Giovanni Belzoni riusciva a penetrare all'interno della seconda piramide di Giza, quella del faraone Chefren. Un trionfo che rese celebre il viaggiatore-scopritore la cui permanenza in Egitto fu però contrastata da gelosie e interessi di altri personaggi intenzionati ad accaparrarsi i reperti e i meriti.
Ai turisti italiani che scendono nel basso corridoio che dà accesso alla cella sepolcrale della piramide di Chefren e osservano la scritta che vi campeggia, “Scoperta da G. Belzoni – 2 marzo 1818“, la guida araba si rivolge, di solito, con una scrollata di spalle. Come dire: questi italiani, già si sono presi il merito d’aver scoperto l’America, quando c’erano stati già prima i vichinghi, e adesso pretendono d’aver trovato l’ingresso di questa piramide che noi avevamo scovato già da mezzo millennio.
In effetti, quando il “titano padovano” riuscì, con un colpo di genio e d’intuito, a penetrare nelle viscere del gigante di pietra dove tanti altri, tra cui l’amico-rivale Bernardino Drovetti, italiano come lui, avevano miseramente fallito, sognava una sala colma di tesori, con il sarcofago del faraone inviolato e i sigilli intatti. Invece trovò una cripta deserta, con un enorme sarcofago aperto e sui muri una scritta in arabo quasi illeggibile, risalente al 1200, che faceva pressapoco così: «Mohammed Ahmed, maestro scalpellino, l’ha aperta; maestro Ohtman e il re Mohammed Alì furono presenti dal principio fino a che non è stata richiusa». Nel sarcofago furono trovate ossa che risultarono poi essere di bovino: di qui la lunga polemica tra gli studiosi perché c’era chi pensava, come riporta Belzoni nelle sue memorie, autentico best seller, che nei sarcofaghi egizi fossero sempre sepolti buoi, personificazione del dio Api, vista la grandezza dei sepolcri. Gli scienziati da tavolino, polemizza il nostro, non avevano considerato che le mummie erano chiuse in più casse l’una dentro l’altra come scatole cinesi.
Ma veniamo a noi: perché quella firma, perentoria, in un monumento che altri avevano già violato? Il fatto è che Giovanni Belzoni, figlio del barbiere Giacomo Bolzon, aspirante monaco, venditore ambulante di rosari e santini, “ingegnere” idraulico, giocoliere e “Sansone patagoniano” di spettacoli ambulanti, aveva già avuto modo di sperimentare sulla sua pelle l’onestà di chi stava in quel momento “scoprendo” e saccheggiando i tesori d’Egitto. Con il benestare, s’intende, degli attuali regnanti che in quel mucchio di vecchie pietre vedevano solo l’occasione per fare qualche soldo.
Il fatto è che, dopo la campagna napoleonica, l’Egitto in Europa furoreggiava nell’architettura, nell’arte, nella letteratura e possedere una collezione di reperti faraonici era diventato segno di prestigio, come, nel Rinascimento, possedere antichità greche e romane. Francesi e inglesi erano in testa nella “corsa al reperto” e sgomitavano per avere le cose migliori e il vanto delle più mirabolanti scoperte. Giovanni “parteggiava” per gli inglesi, visto che la Gran Bretagna era la sua patria adottiva e aveva sposato un’inglese, Sarah Banne, degna compagna d’avventura; ma il console inglese, Henry Salt, con la scusa che pagava, aveva la tendenza a prendersi il merito delle scoperte, relegando il gigante italiano al semplice ruolo d’esecutore, di “trasportatore”. Come era avvenuto per il trasporto della enorme testa del “giovane Memnone” (Ramses II ) che solo grazie alla costanza e all’ingegno di Belzoni aveva preso la strada del British museum. O come con i templi di Abu Simbel, dove solo l’infaticabile tenacia del padovano era riuscita a spuntarla su tonnellate di sabbia, l’ostilità e il doppio gioco degli indigeni, l’avversità di un clima rovente: e anche qui nessuna traccia degli incredibili tesori, protetti da spiriti maligni, di cui si favoleggiava. Solo la meraviglia, questa sì legittima, di aprire alla conoscenza ambienti di meravigliosa fattura.
Fresca fresca, c’era poi stata la faccenda del conte di Forbin, direttore del museo reale di Francia, che siccome soffriva il caldo e non era riuscito a trovare nessun pezzo antico come “souvenir” del suo viaggio in Egitto, s’era fatto dare qualche statua da Belzoni e la pianta interna della piramide di Chefren, per poi scrivere sui giornali francesi che Abu Simbel e la stessa piramide l’aveva scoperta lui… Ecco allora spiegata la scritta, per stabilire la verità, con orgoglio, senza vanteria.
