Storie
Pedescala 30 aprile 1945: il mio nome è mai più. Nascerà un museo diffuso
La comunità ha deciso: 74 anni dopo è tempo di riconciliare la memoria. Nascerà un museo diffuso dell’eccidio
StorieLa comunità ha deciso: 74 anni dopo è tempo di riconciliare la memoria. Nascerà un museo diffuso dell’eccidio
«La nostra è stata un’infanzia tutta pane e “disastro”. Le donne vestite sempre e solo di nero. Un paese in lutto permanente». Chi arriva oggi a Pedescala senza mai aver sentito parlare dei fatti di quel maledetto 30 aprile 1945 non può comprendere le parole di Delmo Stenghele, lo storico del paese. L’Astico, le pendici dell’Altipiano, le piazzette, la chiesa del Redentore lassù in alto, lungo la provinciale che sale a Rotzo: elementi tipici di un luogo ameno, ridente. Ma nell’animo degli abitanti il “disastro” – come chiamano qui l’eccidio – è una costante: impossibile da superare. «L’eccidio è l’argomento di famiglia. A ogni pranzo, a ogni ricorrenza si è sempre parlato di quello – conferma Adriana Giacomelli, uscendo dalla sua casa che dà proprio sul viale dedicato ai Martiri della strage – Mia mamma è morta a oltre 90 anni, sessant’anni dopo quell’inferno, e ancora la notte gridava, in preda agli incubi per quello che ha passato».
Il fuoco, l’odore acre che saliva al cielo con il fumo, gli spari e le grida rauche dei tedeschi sono scolpiti nella memoria di questa comunità. Anche se oggi che a Pedescala abitano solo persone che di quei fatti hanno sentito i racconti dei genitori o dei nonni, la violenza dell’azione di “bonifica” del paese messa in atto dall’esercito germanico in ritirata dopo la Liberazione è ancora una presenza concreta. «Proprio lì hanno sparato a mio nonno, e il calore del proiettile che lo ha ucciso ha bruciato i capelli a mia sorella che in quel momento era in braccio suo», racconta Gianclaudia Pretto, nata nove mesi dopo la strage che le portò via anche il padre Giovanni (35 anni) e il fratellino Claudio di 4 anni. Indica i gradini dove è morto il nonno, Gianclaudia, ma la porta a cui le due lastre in pietra dovevano condurre, in quella casa accanto alla chiesa, oggi non c’è più: al suo posto una finestra. Il passaggio è sbarrato. Bloccato. Esattamente come la memoria dell’eccidio.
«La nostra comunità non ha ancora superato quel trauma – spiega l’architetto Domenico Molo, figlio di una superstite – Questa è una costante di tutte le popolazioni colpite dai massacri durante la seconda guerra mondiale. È così per Sant’Anna di Stazzema come pure per Marzabotto o per San Miniato. Il vissuto doloroso convive con la quotidianità, rimane negli angoli più intimi e privati delle famiglie e non viene mai rielaborato». Da qui l’idea, promossa proprio da Domenico Molo con i colleghi di studio Diego Rampado e Carlo Ronda, di dare vita a un percorso per riappacificare la memoria che porterà alla creazione di un museo diffuso attorno all’eccidio.
Superare il trauma, riappacificare la memoria può apparire un’impresa coraggiosa e complicata. A Pedescala le famiglie ancora oggi sono divise: di qua chi ricorda le vittime della strage, di là chi conta tra i congiunti i presunti colpevoli. Le ricostruzioni storiche ancora non sono consolidate: c’è una memoria collettiva che attribuisce ai partigiani l’attacco ai tedeschi che poi scatenò la rappresaglia e quindi i 64 morti di Pedescala e i 19 tra le altre frazioni di Forni e Settecà; ma ci sono anche volumi storici che mettono in dubbio questa tesi e perfino il numero di morti tra i soldati tedeschi: non sei, non due, forse nessun morto. Quel che è certo è che l’esercito del Terzo reich non era di passaggio, bensì presidiava il territorio per garantire una ritirata sicura. Per questo l’eccidio fu selettivo, si concentrò sugli uomini, mentre le donne vennero rinchiuse nel cimitero, da dove in seguito fuggirono verso l’Altopiano trovando riparo nella grotta naturale nel cuore della Valdassa chiamata Balcugola in cimbro. I militari rimasero in paese fino al 2 maggio, alcune di loro tra cui la madre di Delmo Stenghele dovettero servire i carnefici per tre lunghi giorni, nel loro paese devastato, piangendo di nascosto i propri morti. Una parte della popolazione, nel 1983, rifiutò la medaglia d’argento al valor militare inviata dal presidente Pertini: da allora, per un periodo, ci furono due commemorazioni ogni 30 aprile.
«Fin dal primo incontro con la comunità, lo scorso dicembre – continua Molo – abbiamo messo da parte la volontà di scrivere la storia dei fatti. Abbiamo compreso insieme che questo è il momento di riunirci e rendere trasmissibile la nostra memoria, perché non cada nell’oblio. Per la prima volta le persone si sono messe insieme attorno a un tavolo e, grazie alla tecnica del world cafè, hanno condiviso il loro vissuto. Il confronto è complesso, ma ci sarà tempo per tutti di far parte di questo percorso. A differenza di monumenti o memoriali, che pure sono presenti a Pedescala, il museo diffuso unisce la memoria, i luoghi, le tracce storiche alla testimonianza: la comunità sarà parte attiva, raccontandosi supererà il trauma e lancerà un monito perché questo inferno non si ripeta mai più né qui né altrove».
Il vero lavoro, in questo momento, è interiore. Entro la prima metà di agosto la comunità tornerà a incontrarsi, per condividere il pensiero sulla propria storia e che cosa vada custodito anche degli elementi più intimi. «Quel 30 aprile ci rimane nella memoria, ma ora ci chiama ad aprire mente e cuore – sottolinea il parroco, don Sergio Stefani, successore di don Fortunato Carlassare, trucidato nella strage – L’anelito alla pace e alla fraternità ci chiama anzitutto a fare la pace tra di noi, in maniera concreta e quotidiana, altrimenti rischiamo di fare solo discorsi».
Nei prossimi mesi verrà approntato il masterplan che conterrà le azioni, i tempi e i luoghi che comporranno il museo, assieme alla Casa della memoria. Nascerà un’associazione dei cittadini, con le parrocchie di Pedescala e Forni, il Consiglio degli usi civici e l’amministrazione comunale. Ilenia Marangoni, nuova consigliera comunale con delega alla cultura, segue da vicino il progetto: «Appoggeremo in tutto e per tutto il percorso, ricercando anche fondi europei e chiedendo un incontro con l’ambasciata tedesca a Roma che da anni sostiene i paesi vittime di violenza nella Seconda guerra mondiale».
Nel frattempo, sabato 22 giugno, la comunità ha ripercorso per la prima volta unita “la via della salvezza” attraverso la quale le donne di Pedescala si misero in salvo. Un passo enorme verso l’elaborazione del trauma: le famiglie delle vittime e quelle dei partigiani hanno letto insieme brani proposti da Pax Christi, a dimostrazione che l’odio si può superare. Il dolore rimane, quello di Florio Spagnolo è tangibile: dei due fratelli di 16 e 14 anni non riesce a parlare, e nemmeno del padre che tornando ignaro in paese trovò la famiglia sterminata. Condividere tutto questo con i giovani che verranno qui, come accade ogni mese a Sant’Anna di Stazzema, sarà il modo migliore per ricordare i propri cari e per rendere la loro memoria un tesoro non solo per la valle dell’Astico.
Mentre il progetto avanza si moltiplicano i contatti. Dai siti degli eccidi (l’ambasciata tedesca ne ha censiti 5.500) emerge sempre più chiara l’esigenza di creare una rete e condividere le pratiche della trasmissione della memoria.
Il progetto di museo diffuso di Pedescala si ispira ai percorsi di valorizzazione della memoria dei molti luoghi colpiti da eccidi alla fine della Seconda guerra mondiale, ma anche a quanto sta avvenendo nel Carso dove tra il 1915 e il 1918 tutta l’Europa combatté: i luoghi della guerra oggi lì sono sede di laboratori ed esperienze condivise tra giovani europei per costruire una nuova pagina di storia.
«Pedescala fu distrutta due volte in 30 anni – spiega Domenico Molo – e in entrambi i casi la comunità, e le donne in particolare, ebbero la resilienza e la forza di ricostruirla: è un unicum in Italia. Il nostro obiettivo è trasmettere la memoria ai giovani italiani e non solo, stringendo legami con le università e altre istituzioni perché vengano a fare un’esperienza formativa importante qui».
Questa prima fase del percorso è stata accompagnata dal Festival biblico, nella cui cornice si è posto l’incontro con l’antropologa Caterina Di Pasquale dello scorso maggio, che tornerà in autunno per seguire il processo in atto dopo aver lavorato per 5 anni a Sant’Anna di Stazzema. Di Pasquale ha trovato una comunità vitale, che ha intrapreso forse in ritardo, ma con decisione, questo percorso.