Storie
Giulia, Urania e le altre
Donne comprate, donne vendute; donne violate, donne “assicurate”; talvolta, donne amate.
Donne comprate, donne vendute; donne violate, donne “assicurate”; talvolta, donne amate.
Le scopriamo in un viaggio nel tempo, guidato da Claudio Grandis, studioso di storia locale, che dalle carte d’archivio fa emergere e rivivere storie di donne che sono state specchio, e vittime spesso, della società mercantile e patriarcale del Veneto fra il Cinquecento e il Novecento. “Patriarcato”: un termine oggi tristemente alla ribalta della cronaca per le uccisioni di donne per mano degli uomini che dicevano di amarle. Un concetto che aveva ben posto in evidenza 470 anni fa la prima donna scrittrice di romanzi nel Rinascimento, la padovana Giulia Bigolina, mettendolo in relazione al tema dell’educazione. Il suo romanzo Urania, scritto fra il 1554 e il 1558, è rimasto inedito fino al 2002, quando l’editore Bulzoni lo ha dato alle stampe. L’inferiorità della donna in Bigolina non è di matrice naturale ma politica e «ha radice nel complotto patriarcale che nega alle donne una educazione adeguata, limita la loro mobilità e controlla i mezzi di comunicazione con il mondo esterno» spiega la curatrice del libro, Valeria Finucci. «Urania è un libro davvero all’avanguardia – commenta Claudio Grandis – è un vero e proprio trattato femminista. L’autrice evidenzia i vantaggi per gli uomini di una relazione d’amore basata sul rispetto reciproco, sulla stima e sulla parità intellettuale; sostiene che molti conflitti fra i due sessi sono attribuibili al fatto che alle donne non è concesso un ruolo nel sistema politico, culturale, medico e filosofico dell’epoca e rimprovera gli uomini per la loro tirannia dettata dai costumi sociali». Urania insiste sul fatto che molti problemi sociali derivano dalla scarsa moralità maschile: «Dicovi che molto bene dovete considerare da quale de’ due sessi vengono il più delle volte le tante scelleraggini e tristizie di che il mondo n’è pieno. Gli inganni, le usure, i tradimenti, gli furti, le rapine e gli omicidi, da cui vengono se non da gli uomini sempre?». Schiave, serve, attrici… sono innumerevoli le storie di donne che hanno subito violenza, anche da prepotenti “illustri”, senza potersi difendere. Grandis ne ricorda tre, a partire dalla madre di Leonardo da Vinci, che Carlo Vecce ha ricostruito nel romanzo Il sorriso di Caterina (Giunti, 2023). «In origine non si chiamava Caterina – racconta Grandis – ma era una schiava circassa che fu rapita nella zona del Caucaso e imbarcata nel porto di Tana, il più orientale frequentato da Venezia, e portata al mercato di Rialto. Qui, nuda – oggetto esposto ai compratori, come le altre centinaia di migliaia di schiavi che da qui passarono, ricordiamo che Venezia fino al 17° secolo fu il più grande mercato di schiavi del Mediterraneo – fu valutata, scelta e comprata da un orefice fiorentino che la donò alla sua amata, monna Ginevra». Le fu imposto il nome di Caterina, perché gli “infedeli” andavano battezzati. Nella casa girava il notaio Pietro da Vinci, che nell’estate del 1451 violò la regola di non toccare le schiave, in quanto proprietà del padrone. Così Caterina rimase incinta e diede alla luce un bambino, che chiamò Leonardo, come il patrono degli schiavi. A questo punto monna Ginevra decise di liberarla e l’atto notarile fu steso dallo stesso Pietro, che però non legittimò il figlio, altrimenti gli sarebbero spettati tutti i beni di famiglia. Pietro invece si sposò quattro volte ed ebbe dieci figli; Leonardo visse con la madre, che morì a Milano quando lui era al servizio di Ludovico il Moro. Ha 13 anni Maria, quando nel 1483 viene presa a servizio a Padova nella famiglia di Giovan Francesco Beolco, mercante di tessuti, per la durata di 12 anni: verrà pagata alla fine, come si usava, e con quella cifra, a 25 anni, si potrà fare una dote per maritarsi o per entrare in convento. Nel frattempo, però, Giovan Francesco abusa di lei e nasce Angelo, che diventerà il famoso commediografo Ruzante: figlio riconosciuto come naturale, ma non legittimato, sempre per questioni ereditarie. Zanetta Farussi è un’attrice che recita al San Samuele di Venezia, di cui è proprietario Michele Grimani. L’uomo ha una relazione con lei, la mette incinta e poi, per trarsi d’impiccio, la costringe a sposare un membro della compagnia teatrale, Gaetano Casanova. Il figlio che nasce prenderà il nome di Giacomo; dal 1737 al 1739 è certificata la sua iscrizione all’Università di Padova, dove studia Diritto, mentre è assiduo frequentatore delle acque termali di Abano da cui trae giovamento per i suoi mal di testa. Venendo a tempi più recenti, Maria Antonietta Lazzarini è una maestra di Este trasferitasi a Milano nel 1924. Qui, per dodici anni, ha una relazione con il principe Giovanni Alberico Trivulzio, da lui interrotta bruscamente nel 1938. Lei lo uccide a colpi di rivoltella in pieno centro a Milano. La notizia esce sul Corriere della sera, dopo tre giorni, in un trafiletto di dieci righe. Censura fascista, stretta a protezione di una nobile famiglia. Maria Antonietta attende in carcere un processo che mai arriverà e viene dichiarata pazza. Rinchiusa per quindici anni nel manicomio criminale di Aversa prima e successivamente in quello di Padova, torna poi a vivere a Este. Per tutta la vita ha chiesto quel processo che sempre le fu negato. Nel testamento ha lasciato tutte le sue carte e i libri alla Biblioteca comunale di Este e ha disposto l’istituzione di una Fondazione, che tuttora assegna i “Premi Lazzarini” agli studenti meritevoli della scuola dell’obbligo. Francesco Selmin ha raccontato la sua storia nel libro La donna che uccise il principe (Cierre, 2018). C’era forse un’unica assicurazione sulla vita per le donne del passato: la dote. «La dote era una tutela, un elemento essenziale per il matrimonio, che era regolato da un contratto dove l’entità della dote era specificata – spiega Claudio Grandis – Se l’uomo lo violava, la donna aveva diritto al divorzio. E questo, oltre al commercio degli schiavi, è sempre stato un punto di attrito fra la Serenissima e la Chiesa». Se la donna moriva, la dote tornava alla famiglia di provenienza. «Altrimenti – commenta Grandis – il femminicidio sarebbe stato all’ordine del giorno». Molte donne facevano testamento prima del parto, prese dal timore di poter perdere la vita, per stabilire a chi eventualmente lasciare la dote. «Per evitare beghe di famiglia, o magari anche come semplice atto d’amore, qualche uomo nel proprio testamento disponeva clausole a favore della consorte. È il caso di Alvise Mussato, che 1675 alla moglie Lucrezia lasciò otto campi, non avendo lei dote e per essersi «strussiata» per lui. Decio Agostino Trento Testa lasciò i suoi beni a Faustina Papafava, perché aveva avuto «invincibili argomenti d’amore» per lui. È anche vero – conclude Grandis – che la coppia non aveva figli e il lascito testamentario difendeva la donna dall’assalto degli eredi».
Urania è una giovane poetessa protagonista del primo e unico romanzo in prosa scritto da una donna nel Cinquecento, Giulia Bigolina. Non è descritta come bella (come avrebbe voluto il canone petrarchesco), ma come determinata ad avere una relazione sentimentale solo nei termini che le sono graditi, esigendo che il compagno capisca che le donne migliori per gli uomini non sono quelle belle ma quelle intelligenti. Gli uomini, invece, le rendono da loro dipendenti, perché invidiosi della gloria femminile.
Dal Duecento all’Ottocento la dote era un elemento indispensabile per la libertà della donna, perché le permetteva di determinare – per quanto concesso dai tempi – il suo futuro, senza rischiare di finire a servizio di famiglie abbienti.