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Di fronte alle grandi domande. Credenti e pensanti. La Lettera.d Monica Cornali
La colomba dello Spirito e della pace ha due ali: fede e ragione. L’immagine di Giovanni Paolo II ci esorta a utilizzarle entrambe
IdeeLa colomba dello Spirito e della pace ha due ali: fede e ragione. L’immagine di Giovanni Paolo II ci esorta a utilizzarle entrambe
Il card. Martini (1927-2012) quando ha istituito quel bellissimo e lungimirante esperimento chiamato “La cattedra dei non credenti” non aveva intento missionario, ovvero di portare i non credenti alla fede. Si trattava piuttosto di imparare dai non credenti, portatori di un aspetto della verità, di raccogliere i semi di ricchezza che potevano portare, di utilizzare le loro ragioni come provocazioni salutari, utili alla fede, perché potesse diventare più matura, più essenziale. In questo senso, egli sosteneva che dentro ciascuno di noi c’è un credente e un non credente che sempre dialogano tra loro, a volte confliggono, ma l’importante è riconoscerli, perché solo nella loro relazione vi è possibilità di arricchimento umano. Mi è capitato, non molto tempo fa, di tenere alcuni incontri dove sono convenute persone dichiaratamente credenti e persone dichiaratamente non credenti. Al termine della riflessione, tuttavia, entrambi i gruppi si sono riconosciuti parte di un mistero in cui non era più né così chiaro, né così importante, ritenersi credenti o non credenti. Le riflessioni portate avanti, riguardavano quelle domande di senso profonde che accomunano tutti, specie di fronte alle esperienze di sofferenza, e quel desiderio profondo di “bene” che abita il cuore di ciascuno. Ci si è resi conto che tutti gli uomini sono spirituali, viventi dentro lo stesso “Mistero”, il quale, non chiede d’essere “risolto”, ma contemplato. La spiritualità risponde a quella tensione intima alla trascendenza che caratterizza tutti gli individui, che è originaria rispetto a qualsiasi rappresentazione e regola culturale e che si distingue dalla religiosità, anche se può incanalarsi in una forma religiosa. Secondo Norberto Bobbio (1909-2004), invitato dallo stesso Martini alla Cattedra dei non credenti nel 1990, «la differenza rilevante non passa tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti», intendendo distinguere tra chi si pone le domande esistenziali profonde (chi sono, da dove vengo, dove vado, che senso può avere il mio esserci) e chi no. Con la parola “pensiero” non va inteso quell’aspetto puramente razionale, logico, verbale – che pur è funzionale per molti ambiti della nostra vita quotidiana – bensì quel “cuore” che, in senso biblico, corrisponde alla fucina in cui si forgiano i valori intimi e universali, attraverso l’esercizio di attenzione, discernimento e decisioni coerenti.
Il nostro tempo non è forse connotato da un deficit del “pensare”? Mi sovviene la figura di Hanna Arendt (1906- 1975), la pensatrice tedesca che ha vissuto il clima terribile della seconda guerra mondiale. Nei suoi scritti ha enucleato il concetto di “banalità del male”, riferendosi non tanto o non solo al male che fa scalpore e indignazione, ma a quella mancanza di bene derivante da una carenza di attenzione, da un mancato esercizio di pensiero, da una pigrizia. Pensare davvero, infatti, è impegnativo e a volte doloroso: significa rendersi conto del proprio limite, della necessità di fermarsi, di aprirsi a una ulteriorità, di ascoltare e ringraziare. È curioso che in tedesco pensare (denken) abbia la stessa radice di ringraziare (danken). Solo dall’esercizio di questo pensiero, dalle sue profondità, può scaturire un agire responsabile e compassionevole. Se una persona non ha mai messo in discussione i presupposti su cui basa la propria vita, se non si è mai confrontata con le fondamentali e spesso abissali domande di senso sul proprio e altrui esistere, possiamo dire che il suo pensiero sarà estremamente povero, la sua azione estremamente banale e autoreferenziale. Per sant’Agostino «credere non è altro che pensare assentendo», per cui la fede, se non è oggetto di riflessione, non è fede. È interessante chiedersi a che cosa dice sì (assente) colui che crede. Si crede in Dio perché non ci si rassegna all’assurdo, al non-senso, perché ogni uomo sente di essere troppo piccolo per bastarsi da solo e troppo grande per accontentarsi del nulla, perché si desidera far confluire la propria vita in un disegno più grande e di più importante del proprio ego. È lecito coltivare una speranza di senso senza tradire la natura di esseri pensanti, non rinunciando alle domande, al dubitare, sostando nelle aporie, coinvolgendo la ragione al punto tale da inebriarla col «presentimento del mistero», come ebbe a dire don Giussani. La colomba dello spirito, e della pace, ha due ali: la fede e la ragione. Questa bella immagine, di Giovanni Paolo II, ci esorta a dispiegarle.