Idee
Migranti. Noi e l’America, loro e l’Europa: che differenza?
La chiamavano “tonnellata umana” per indicare il numero enorme di emigrati italiani imbarcati sulle navi che facevano rotta verso le terre d’Oltreoceano.
La chiamavano “tonnellata umana” per indicare il numero enorme di emigrati italiani imbarcati sulle navi che facevano rotta verso le terre d’Oltreoceano.
Viaggiavano su “vascelli della morte”, tanto era incerto l’arrivo a destinazione. Oggi sono dette “carrette del mare” quelle che arrivano a Lampedusa, nello stesso modo della nostra storia passata, con lo stesso azzardo della vita. Le somiglianze sono enormi tra i viaggi dei nostri emigranti e quelli degli immigrati che si dirigono verso le sponde sud dell’Italia. Allora si partiva a sercar fortuna, e i soldi per il viaggio venivano dalla vendita della casa, degli animali, degli ori, ci si faceva prestare i soldi da parenti e amici; oppure c’era un debito capestro con chi organizzava il viaggio, perché cresceva con l’usura e spingeva ad accettare qualsiasi mestiere. Proprio come oggi per gli immigrati che provengono dalle sponde dell’Africa, con le stesse speranze, le stesse incognite, lo stesso sfruttamento. Si affrontano i pericoli del viaggio, accomunati dalla stessa umanità e dalla stessa povertà: gli italiani, che navigavano verso l’America, avevano una valigia di cartone tenuta insieme da quattro spaghi; gli immigrati, che superano il mar Mediterraneo, arrivano con un borsone recuperato chissà dove. Per gli italiani, l’America era rappresentata dall’isola di Ellis Island, approdo obbligato prima di arrivare dove si costruivano i grattacieli e la subway. L’isola era un lembo di terra in mezzo al mare, occupato quasi per intero da una serie di edifici dove gli emigranti venivano portati, schedati, visitati, interrogati. Era conosciuta come la “Porta dell’America” e, in alternativa, “l’isola delle lacrime”. Perché qui si poteva essere umiliati, trattati come esseri inferiori, intruppati in corsie di ferro come si fa con i buoi che devono essere marchiati. E molti, oltre alla rabbia, dovevano veramente buttar giù tante lacrime, espulsi perché non superavano l’esame medico, perché avevano i pidocchi, perché avevano la pelle di un colore strano. Da disperati dovevano rifare all’indietro il lungo e costoso viaggio in nave. Anche l’isola di Lampedusa è detta la Porta dell’Europa, perché nel 2008 è stato costruito il grande monumento a forma di porta che guarda verso il mare e verso la terra. Verso la terra, per una speranza di accoglienza. Verso il mare, per i troppi immigrati che nel mare hanno perso la vita. È la “porta delle lacrime” aperta verso un cimitero d’acqua senza croci e senza nomi, verso il quale le madri piangono i loro figli. Il papa ci ha domandato se siamo ancora capaci di piangere o se rimaniamo indifferenti davanti ai tanti morti nei “viaggi della speranza”. La risposta ha a che fare con il grado della nostra umanità.
A Lampedusa, ogni giorno si assiste alla strage di innocenti. Il 21 ottobre due bambini di uno e tre anni sonoarrivati morti a causa delle ustioni; stesso destino, quattro giorni dopo, di due gemelline di solamente 28 giorni che viaggiavano con mamma e papà e che avevano ai polsi ancora il braccialetto della nascita. Tra il 9 e il 10 novembre, al porto, è arrivato il corpo di un bambino di soli 21 giorni: morto di freddo era in braccio alla sua mamma, una ragazza di 19 anni proveniente dalla Costa D’Avorio.