Idee
Se 11 milioni di poveri sembrano pochi. Cosa può fare la politica. Cosa possiamo fare noi
Come possiamo tollerare tutto ciò? Com’è possibile uscire ogni mattina di casa e far finta di niente?
IdeeCome possiamo tollerare tutto ciò? Com’è possibile uscire ogni mattina di casa e far finta di niente?
I numeri ce li mette a disposizione, ancora una volta, l’Istat, nell’ultima indagine sulle condizioni di vita e il reddito delle famiglie diffusa martedì scorso: nel corso del 2023, più di un italiano su cinque – stiamo parlando di 11 milioni di persone in termini assoluti – si trovava a rischio povertà dal momento che ha dichiarato un reddito netto inferiore al 60 per cento rispetto a quello mediano (pari a 11.891 euro). Certo, ci si può consolare pensando che nel 2022 questi dati erano ancora più alti: se un anno fa si trattava del 18,9 per cento della popolazione, oggi siamo al 18,7. Ma quegli 11 milioni di persone rimangono, e faticano ad arrivare a fine mese. Non solo. Tra di esse, due milioni e mezzo sono addirittura «in condizione di grave deprivazione materiale e sociale», si tratta del 4,7 per cento degli italiani, in questo caso in aumento dal 4,5 per cento dell’anno precedente. La prima delle riflessioni che scaturiscono da tutto questo si concentra sulla parola «sociale». «Deprivazione sociale», per essere precisi. È l’aspetto chiave perché è esattamente quello su cui tutti noi possiamo agire, da singoli o come famiglie, da semplici cittadini o associandoci con altri. La povertà materiale porta con sé una serie di complicanze subdole e difficili da affrontare: lo stigma, l’indifferenza, il troncamento delle relazioni, anche di quelle fondamentali. Ma è la stessa persona in situazione di disagio a farsi tentare dall’isolamento, a rifuggire il contatto a causa della vergogna e della perdita di autostima. Quando in condizione di povertà scivola un’intera famiglia, le conseguenze peggiori le patiscono i piccoli e i ragazzi, che rischiano di perdere importantissime occasioni di crescita e formazione, e gli anziani, che faticato a rispondere ai bisogni essenziali che tendono a crescere con l’età. Ma di fronte a tutto questo, c’è molto che ognuno di noi può fare. Non possiamo rassegnarci al vicinato anonimo alimentato da agende strapiene, che non permettono nemmeno di parlare con una persona uscendo o rientrando a casa. Non possiamo continuare a vedere (o testimoniare?) l’appartenenza a un’associazione o a un organismo ecclesiale, oppure il servizio alla cosa pubblica nell’amministrazione comunale (o di quartiere) solo come un peso o un insieme di “rogne” da evitare. In questa regione in cui il gene del volontariato sta sbiadendo nel quadro del suo Dna, possiamo rilanciare l’aspetto comunitario come un aspetto centrale per la nostra convivenza civile. E, sì, sarà difficile e complesso, ma è sostenibile in un progetto di vita che ne tenga conto dall’inizio. Non possiamo tuttavia scansare la questione economica che, oramai da tempo, stritola la nostra politica, e veniamo così alla seconda riflessione. A fronte di una situazione che da decenni rimane di scarsità di risorse (siamo il secondo Paese dei 27 dell’Ue per deficit e quindi per debito pubblico) i Governi che si succedono a palazzo Chigi non riescono a definire politiche di ampio orizzonte, non si scorgono visioni per l’Italia di domani, ci ritroviamo a ogni legislatura alla prese con interventi puntuali che puzzano di “esca da consenso” nella campagna elettorale senza fine nella quale siamo immersi. Proliferano i bonus: lasciamo perdere lo sciagurato superbonus 110 per cento (che il senatore Monti ha definito un Robin Hood al contrario), ma anche l’ultimo decreto sul lavoro, approvato dal consiglio dei ministri in corrispondenza del primo maggio, in fin dei conti si basa su bonus fiscali per chi assume. Oppure, assistiamo ad annunci reiterati di opere enormi che sfidano le leggi della fisica e che sorgerebbero su territori arretrati dal punto di viste dei fondamentali (viabilità, antisismicità degli edifici): ogni riferimento al ponte sullo stretto di Messina non è puramente casuale. Abbiamo bisogno di politiche attive per il lavoro e di un piano che innalzi stipendi fermi al palo da trent’anni: sì, quando ancora nei nostri portafogli c’erano le lire. Serve una visione e una serie di progetti per realizzarla.