IdeeLa speranza è qualcosa che va oltre le classificazioni, perché è parte del nostro essere, e, fa bene l’autore a metterlo in evidenza
“Traguardo dove può finalmente trovare compimento quel desiderio di pienezza presente in ogni uomo e donna che hanno amato”: è la speranza secondo Giovanni Cucci, che oltre ad essere vicedirettore di “La Civiltà Cattolica” è docente di filosofia e psicologia alla Gregoriana di Roma. Nel suo recente “La speranza. La forza per affrontare le cose difficili” (Ancora, 116 pagine, 13 euro, prefazione di Federico Lombardi) l’autore richiama l’attenzione del lettore su una dimensione dello spirito ignorata dal padre della psicoanalisi e da molti suoi seguaci -e qui Cucci apre un inquietante discorso sulla disperazione in alcuni psicologi e psichiatri- e dalle ideologie della modernità che la hanno cancellata dalla loro visione del mondo come servilmente consolatoria (Nietzsche) o messa da parte in un discorso basato unicamente sui meccanismi economici (Marx).
In realtà la speranza è qualcosa che va oltre le classificazioni, perché è parte del nostro essere, e, fa bene l’autore a metterlo in evidenza, è presente anche e soprattutto nei momenti che sembrerebbero negarla: quelli di crisi, di fallimento, di non senso. E un altro psicologo, Massimo Scialpi, ha messo bene in evidenza nel suo libro “La crepa” (Fuorilinea, 2022) come la ferita sia un momento essenziale nella strada dell’essere perché offre la possibilità del superamento e dell’adattamento: in poche parole, della speranza.
Ecco che il tanto contestato (dalle ideologie di cui abbiamo detto) cristianesimo evidenzia, proprio nel suo mettere in relazione il qui e l’ora con il trascendente, la chiave di volta non solo per attivare la speranza, ma mettere in circolo quelle sostanze biochimiche che andiamo cercando nei prodotti farmaceutici o nella morfina. Corpo e spirito non sono separati, ma interagiscono uno con l’altro grazie ai messaggi di sostegno, di percorribilità del futuro, di possibilità di miglioramento che sono innati in noi.
Quello che i totalitarismi hanno bollato come illusione -e guarda caso come oppio dei popoli- è in realtà un elemento innato che “desta anche il nostro senso del possibile”. Lungi da essere semplicemente una proiezione messianica, la speranza diviene tutt’uno con la fede in un Cristo che è già risorto, e che quindi rappresenta un presente continuo, un “ecco, sono con voi”, in grado di diventare parte integrante di una strada in perpetuo cammino.
Non è un caso che l’immagine finale del libro sia quella tratta dalla bolla di indizione dell’anno giubilare che reca questa realtà fin dal titolo, “Spes non confundit” (La speranza non delude), con il richiamo di papa Francesco alla arcaica forma ottagonale delle vasche battesimali: essa aveva un preciso significato simbolico, quello dell’ottavo giorno, il giorno della Risurrezione, in cui il dolore atroce si incontra e viene superato -il che non significa la sua rimozione- dalla dimensione dell’eterno.
Un lungo cammino che non è sorriso compiaciuto, ma passaggio nel baratro e, come aveva genialmente scritto Chesterton, diritto di gridare in faccia all’accusatore “non è vero che non siamo mai scesi dal trono! Noi siamo scesi fino all’inferno”.
