Idee
In Veneto Infermieri in mobilità volontaria
In Veneto parte un progetto sperimentale per favorire il riequilibrio territoriale del personale infermieristico e valorizzare i lavoratori
IdeeIn Veneto parte un progetto sperimentale per favorire il riequilibrio territoriale del personale infermieristico e valorizzare i lavoratori
Maggiore libertà di movimento e meno burocrazia per gli infermieri, con lo scopo di rispondere alle loro esigenze e rendere più efficiente la sanità veneta. È questo l’obiettivo dell’avviso pubblico per la mobilità volontaria esterna tra le aziende e gli enti del Servizio sanitario regionale (Ssr), pubblicato da Azienda zero lo scorso 26 marzo. Il provvedimento, parte dell’Azione 2.4 del Piano regionale per contrastare la carenza di personale (delibera 960 del 2024), è destinato a chi lavora da almeno cinque anni nel Ssr. «Con questa iniziativa – spiega l’assessore alla Sanità Manuela Lanzarin – vogliamo dare una risposta concreta al bisogno di stabilità e riconoscimento degli infermieri, offrendo loro nuove opportunità, senza dover ricorrere a nuovi concorsi per cambiare azienda e sede di lavoro. Un passo importante per trattenere competenze nel nostro sistema pubblico e garantire continuità e qualità nei servizi sanitari regionali». Partecipano all’iniziativa tutte le nove Aulss, l’Azienda ospedaliera di Padova e lo Iov. Finora cambiare azienda significava affrontare una selezione pubblica, con oneri amministrativi e stress per i professionisti; ora la procedura sarà più semplice, anche se il trasferimento non sarà automatico ma condizionato all’esito di un colloquio e al consenso di entrambe le aziende coinvolte. Stefano Candotti, infermiere da oltre vent’anni al Pronto soccorso di Padova, commenta l’iniziativa con una prospettiva dall’interno: «La mobilità può essere utile per i colleghi che intendono avvicinarsi alla sede di lavoro e sperimentare nuove opportunità. Le questioni più importanti rimangono tuttavia irrisolte: gli stipendi contano, ma altrettanto importante è garantire turni più sostenibili: oggi molti operatori devono rinunciare al riposo per coprire le assenze dei colleghi malati. Molti giovani giustamente si chiedono perché sacrificarsi, lavorando durante le feste e i fine settimana, senza un adeguato riconoscimento economico e una gestione organizzativa più sostenibile». «La questione decisiva è la qualità della vita e del lavoro – continua Candotti – Non abbiamo ad esempio alcuna assicurazione sanitaria integrativa: se però mi faccio male, non posso più assistere gli altri. La mobilità può essere un passo nella direzione giusta, ma non basta per affrontare i nodi cruciali delle condizioni del personale sanitario». Michele Roveron, segretario generale di Fp Cisl Veneto, sottolinea comunque l’importanza della sperimentazione: «La mobilità è prevista dal contratto, ma negli ultimi tempi era stata bloccata a causa della carenza di personale, e questo significava che per spostarsi gli infermieri dovevano affrontare una selezione pubblica. Le novità principali sono l’utilizzo della piattaforma gestita da Azienda Zero, già utilizzata per i concorsi, e che oggi è possibile scegliere non solo l’azienda, ma anche il presidio specifico per il quale chiedere il trasferimento: per esempio, nell’Ulss 6 si può indicare se si preferisce Cittadella, Camposampiero o Schiavonia. Adesso abbiamo avviato la fase sperimentale e a settembre valuteremo i risultati: se l’iniziativa funziona, potrebbe essere estesa anche ad altre categorie di operatori sanitari». La mobilità degli infermieri si inserisce inoltre in un più ampio contesto di riorganizzazione del sistema sanitario regionale, in cui giocano un ruolo fondamentale le Case e gli Ospedali di comunità, per le quali il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) mette a disposizione oltre 200 milioni di euro solo per il Veneto. Previsti dal Decreto del Ministero della salute numero 77 del 2022 e sviluppati per garantire un’assistenza più capillare e vicina ai cittadini, questi presidi rappresentano un elemento chiave per migliorare la gestione della sanità territoriale. In particolare le Case di comunità dovrebbero offrire una serie di servizi a partire dal medico di base, la specialistica ambulatoriale e i servizi diagnostici, mentre gli Ospedali di comunità dovrebbero disporre di 15- 20 posti letto per coprire bacini di 50-100 mila abitanti, in modo da garantire ricoveri brevi di 30 giorni al massimo, con una funzione intermedia tra il ricovero ospedaliero e quello domiciliare. Una riforma che però in Veneto stenta ad entrare nel vivo; secondo un’indagine dello Spi Cgil al momento su 130 strutture previste appena nove sarebbero già pronte e collaudate, quattro Case e cinque Ospedali di comunità: situazione che rende alquanto complicato il proposito di completare il riordino entro il 2026. Va ricordato che il Pnrr finanzia gli edifici ma non il personale, anche se le leggi di bilancio del 2022 e 2023 hanno stanziato, a regime, quasi 72 milioni di euro per l’assunzione di infermieri e altro personale da utilizzare nei servizi territoriali. «Il principio della prossimità è condivisibile, ma deve essere coniugato con l’efficienza – afferma Maurizio Manno, tra i fondatori di Coordinamento veneto sanità pubblica (Covesap) – È impensabile offrire ovunque tutte le prestazioni specialistiche: serve un compromesso tra accessibilità e qualità del servizio». Il Covesap è una rete che attualmente riunisce una quindicina tra comitati e associazioni, nata spontaneamente per difendere la sanità pubblica e fornire assistenza ai cittadini nell’esercizio del loro diritto alla salute. Il problema principale, secondo Manno, rimane quello delle risorse: «Non si può fare il gioco delle tre carte con il personale, quello che serve è un piano di assunzioni», ribadisce. L’integrazione tra mobilità degli infermieri e rafforzamento della rete territoriale resta comunque cruciale per rendere il sistema sanitario più efficiente. «Gli Ospedali di comunità e le Case possono rappresentare una risposta concreta alla congestione dei pronto soccorso e alla carenza di medici di base – conclude Roveron – Tuttavia, il vero problema resta la disponibilità di personale qualificato. Creare nuove strutture senza investire in risorse umane rischia di lasciare irrealizzate molte delle potenzialità di questo modello. Possiamo costruire gli edifici ma poi dobbiamo “riempirli”: il rischio, senza un’adeguata pianificazione e valorizzazione delle professioni sanitarie, è trovarsi con dei contenitori vuoti».