MosaicoDall’Iliade ai reportage di guerra, la letteratura ha sempre narrato il conflitto. Un viaggio tra i grandi autori che, attraverso le loro opere, hanno denunciato la brutalità della guerra e promosso la cultura come strumento di pace e comprensione
I tempi di guerra li leggevamo sui libri, divenuti classici, dall’Iliade a “Il sergente nella neve”. Poi, all’improvviso, come in un brusco risveglio, ci troviamo di fronte ad altre narrazioni, quelle degli inviati sui fronti ucraini e palestinesi, per non tacere di molti altri conflitti. Oggi.Eppure quegli stessi scrittori avevano messo in guardia dalla banalità del male, quella che da parola, offesa, aggressione verbale, diventa arma reale, scavalcamento di confini, uccisione e violenza. Quegli stessi autori che subivano la fascinazione dell’azione e del fare, contro la pigrizia e la noia, come Hemingway, dovevano fare i conti, e narrarli, con le contraddizioni belliche: le morti inutili, lo svelamento della retorica guerresca, le fughe, gli ordini contraddittori e lontani di chi sta al sicuro di “Addio alle armi” (1929). E sì che quelle contraddizioni sono state narrate da gente che fu pluridecorata per il valore e il coraggio in guerra, come nel caso di Emilio Lussu in “Un anno sull’altipiano” (1938).In molti scrittori in realtà si era fatto largo l’antidoto, vale a dire quell’idea di Europa come fratellanza tra diversi, con l’arricchimento interiore scaturito proprio da quella diversità: prima ancora del grande, drammatico, costante, sogno di una fratellanza europea, oltre i confini e le razze, portato avanti fino alla tragica fine, di Stefan Zweig, da Goethe che aveva ritrovato le radici di un senso perduto proprio attraverso l’andarsene via dalla piatta, anche se comoda, vita di corte, in una Italia che gli ridette la fede nella vita. Solo il contatto vivo con quella che molti viaggiatori illuministi avevano visto come miseria e superstizione, la patria di Dante, Leonardo e Michelangelo, poteva far capire al genio che la vita era quella: la strada, il popolo, la lingua armoniosa, il panorama dei mari e dei monti fanno sì che “si può credere nuovamente in Dio”. Oltre le distinzioni tra civiltà e natura.Ma anche Shakespeare nei suoi capolavori aveva percorso un itinerario europeo che andava dalla Danimarca di Amleto alla Verona di Giulietta e Romeo, attingendo, anche attraverso la traduzione di suoi contemporanei, alle leggende e alle storie nate altrove che non nella sua Inghilterra. Senza dimenticare che un altro grande, oltre un secolo più tardi, aveva scritto opere memorabili contro la divisione di casta e di confine: e non solo teoricamente, perché Tolstoj aiutò realmente i poveri e i contadini e alla fine scelse di andarsene via dalla sazietà, morendo durante quella fuga nella stazione ferroviaria di Astapovo.Pochi anni dopo, un altro grande poeta, Eliot, nella sua “Terra desolata”, siamo nel 1922, metteva in risalto come la guerra non avesse risolto i grandi problemi che gravavano sull’uomo moderno e che provenivano da molto lontano: solo con la comprensione, la condivisione e il ritorno alla fede, che poco più tardi Eliot compirà, potevano essere affrontati. E non è un caso che un capolavoro del Novecento, “La montagna incantata” di Thomas Mann, ricordi nella pagina finale come la guerra –“questa mondiale sagra della morte”- rappresenti non la redenzione dal dubbio e dall’inazione, ma il sacrificio di giovani che avrebbero potuto costruire una nuova epoca di pace.Su quanto la letteratura (ma non solo: si pensi alla Guernica di Picasso) possa per la costruzione di un cammino di pace racconta Simonetta Fiori in “La biblioteca di Raskolnikov” (Einaudi), con le proposte di lettura di alcuni protagonisti del nostro panorama culturale: si va da Dostoevskij a Calvino, solo per fare due nomi.Non solo condanna della guerra, ma consapevolezza che la cultura sia un mezzo attivo e reale per costruire un mondo nuovo.
