Il ruolo di chi lavora in carcere, oltre i pregiudizi

Il mondo del carcere è spesso avvolto da pregiudizi e narrazioni parziali, soprattutto quando si tratta di chi vi lavora ogni giorno. Tra questi, la Polizia penitenziaria gioca un ruolo cruciale nella sicurezza e nella gestione degli istituti, ma la sua figura è spesso fraintesa o sottovalutata. Durante la presentazione del libro Narrazioni e distopie penitenziarie di Pietro Buffa, tenutasi presso la Sala Anziani del Comune di Padova il 28 marzo, è emersa una riflessione approfondita sul rapporto tra gli agenti e i detenuti, mettendo in luce le sfide e le contraddizioni di un sistema in continua evoluzione

Paolo Gallerani

collaboratore

Il mondo del carcere, questo sconosciuto. Soprattutto se si parla di chi in quei luoghi ci lavora, come la Polizia penitenziaria, un corpo che si occupa della sicurezza e della gestione degli istituti penitenziari. Presso la Sala Anziani del Comune di Padova, nel pomeriggio del 28 marzo, si è parlato di questi agenti e del loro rapporto con i detenuti, attraverso una prospettiva particolare.

L’occasione è stata la presentazione del libro di Pietro Buffa, Narrazioni e distopie penitenziarie (pp. 334, Intra edizioni). L’autore, torinese, classe 1959, è un esperto nel campo penitenziario e criminologico anche per aver ricoperto ruoli direttivi in diverse Case circondariali italiane. Il centro del suo lavoro è un’analisi e una ricerca delle «narrazioni» e dei problemi vissuti nelle carceri dalla Polizia penitenziaria, presentati nell’arco di diversi anni, sulla rivista mensile chiamata PoliziaPenitenziaria, edita dal sindacato più rappresentativo e attivo di questo Corpo, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). Certamente un approfondimento di più di 300 pagine, per gli addetti ai lavori e per chi frequenta per diversi motivi quei luoghi. Va ricordato che il corpo di Polizia penitenziaria è stato istituito il 15 dicembre 1990 con la legge numero 395 Giuseppe Mosconi, uno degli esperti intervenuti alla presentazione del libro.

Il prof. Mosconi, ex docente all’Unipd di sociologia del diritto, è referente per il Veneto dell’Associazione Antigone, una realtà nata negli anni Ottanta per la difesa dei diritti dei detenuti. Dallo studio di Buffa emerge che in PoliziaPenitenziaria il Corpo viene narrato in modo capzioso e tendenzialmente distorto sia nel suo ruolo, che nella realtà carceraria dove gli agenti vengono bistrattati, disconosciuti e non gratificati adeguatamente. Inoltre «vengono messi in prima linea con tutti i problemi correlati» subendo una non adeguata tutela rispetto alle difficoltà che devono affrontare, principalmente nel rapporto con i detenuti.

Per iMosconi «il periodico mette in risalto la forte rivendicazione identitaria della Polizia penitenziaria, del suo valore in contrasto con un discredito diffuso e rispetto alle varie istanze istituzionali e soprattutto verso l’amministrazione centrale. C’è anche una rappresentazione della popolazione reclusa in prevalenza descritta come pericolosa, da controllare e reprimere, da cui difendersi e da gestire in termini securitari e custodialistici». Nel libro di Buffa si dice della fragilità dei detenuti e di come la Polizia penitenziaria sia a tutela di situazioni di disagio e di sofferenza, anche prevenendo i suicidi o affrontando forme di autolesionismo dei carcerati. Quindi si sottolinea la capacità del corpo di gestire le emergenze che si presentano nel suo lavoro quotidiano.

Lo scritto si conclude con delle suggestioni e delle proposte: una riorganizzazione della gestione delle carceri dove la Polizia penitenziaria avrebbe dei compiti di sorveglianza esterna e di gestione dei momenti dove è necessario un contatto prevalentemente «custodialistico». L’autore immagina un istituto penitenziario diretto da educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, con la presenza di un numero molto maggiore di agenti rispetto agli attuali. Quindi diverse professionalità che avrebbero il compito di gestire un carcere inteso come comunità, quasi una grande famiglia, dove attivare opportunità formative e di assistenza soprattutto a livello psicologico e pedagogico. «Questo è l’immaginario – sostiene Mosconi – dopodiché come io stesso ho sottolineato nel mio intervento, resta tutto il problema di chi è in carcere, perché è finito lì e soprattutto della fluidità dei rapporti tra l’interno e l’esterno, in vista del rientro degli ex persone detenute nella società. È importante ragionare sulle reali opportunità di reinserimento, una volta scontata la pena: anche se fermassimo al meglio i detenuti per questo passaggio ma una volta usciti portassero lo stigma negativo dell’ex detenuto, non si uscirebbe dall’impasse».

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