L’omelia del vescovo Antonio nel giorno del congedo dalla diocesi di Padova: «La vera, l’unica civiltà degna dell’uomo e che può assicurare il progresso è la civiltà dell’amore, non quella dell’egoismo e della prepotenza. E la carità è la testimonianza più alta di Dio: mantenetela sempre viva e operosa».Per leggere il servizio iscriviti gratuitamente al sito.
«Da quando ho fatto il mio ingresso in questa cattedrale fino a oggi siete stati la mia famiglia. Sono vissuto con voi e per voi. Insieme abbiamo condiviso tante esperienze, attraversato vicende liete e sofferte. Figlio di questa terra e di questa diocesi, dopo tanti anni vissuti con voi intessendo relazioni di amicizia, certamente non potrò dimenticarvi. Siate certi che vi porterò tutti nel mio cuore».
L’omelia si conclude, ed è un applauso spontaneo, prolungato, intenso quello che l’intera assemblea tributa in piedi al vescovo AntonioMa è solo l’antipasto. L’affetto più sincero e meno formale prende forma all’uscita dalla cattedrale, dove una folla commossa attende il suo ritorno in piazza: chi per un saluto, chi per una foto, tanti per un bacio. Ad attorniarlo c’è un’istantanea autentica della Padova di oggi, così diversa da quella che incontrò nel settembre del 1989. Ce lo ricordano i canti e i colori delle donne africane che si mescolano al dialetto, in un impasto che restituisce non solo il volto della città, ma quello di una chiesa in cui – lo ha ricordato ancora una volta il vescovo Antonio nel giorno del suo congedo – «tanti escono ma molti entrano, ogni anno, per un miracolo dello Spirito che sta trasformando la nostra comunità cristiana».
Il catecumenato degli adulti per un verso, l’iniziazione cristiana per l’altro, sono le grandi scelte pastorali in cui traspare in tutta la sua plastica evidenza la consapevolezza del cambiamento in atto, con i suoi lati positivi ma anche con i tanti angoli oscuri che ogni nuova epoca porta con sé. Nemmeno nel giorno del saluto c’è infatti spazio per i toni sfumati e cerimoniosi. Non lo permette un Veneto che, al pari del resto d’Italia, «globalmente non si ispira più alla fede cristiana e la relega nel privato opzionale». Poi, certo – ed è come un’amara chiosa che il vescovo pronuncia a braccio – quando c’è bisogno tutti corrono a domandare aiuto alla Caritas, ma «la chiusura della cultura egemone a riconoscere Gesù Cristo», l’ostinato e reiterato sforzo di espellere ogni espressione e manifestazione religiosa dalla sfera pubblica rimangono «un enigma doloroso» e si riflettono in quella crisi che dal piano valoriale si è andata inevitabilmente allargando a quello civile e del vissuto sociale, perché «la società per restare unita ha bisogno di un’anima, di ideali e valori condivisi». E l’anima questa Italia sta rischiando di perderla ogni giorno di più.
Arrendersi alla sfiducia? Impossibile perfino a pensarsi, per un vescovo che a 75 anni spiega di ispirarsi ad Abramo nella scelta di voler partire ancora missionarioC’è invece da proseguire l’opera in quel grande “cantiere aperto” che è stata e continua a essere la diocesi, c’è da costruire nuovi percorsi che sappiano ancora trasmettere la bellezza del vangelo. C’è da tradurre in quotidiana, concreta realtà l’immagine del Cenacolo e della piazza, di una «chiesa unita in preghiera ma non chiusa in se stessa, chiesa in uscita verso tutti gli uomini e tutti gli ambienti di vita». Solo per questa strada l’amore per gli uomini del nostro tempo non sarà destinato a rimanere un bello slogan.
E il vescovo, nel congedarsi dalla chiesa che ha guidato in questi tempi di difficili e rapidi cambiamenti, indica ancora una volta due strade lungo cui proseguire il camminoLa prima è rappresentata da quel “volto sinodale”, di piena comunione e corresponsabilità tra vescovo, presbiteri, laici, consacrati, che ha preso le mosse dal primo convegno di Aquileia e che in questi venticinque anni non solo si è tradotta in scelte concrete a tutti i livelli – dalla valorizzazione del vicariato alla nascita delle unità pastorali, dal ruolo sempre più significativo dei consigli pastorali alla nuova scommessa dei consigli per la gestione economica – ma ha saputo plasmare uno stile di essere chiesa che oggi l’intera diocesi sente come suo. Anzi, di cui oggi non sapremmo più fare a meno. La seconda strada è incarnata in quella carità evangelica che – spiega il vescovo Antonio in un inciso dell’omelia tanto breve quanto illuminante nei suoi riferimenti – «è per noi un valore non negoziabile». Come dire che altra via non c’è e non può esserci, se non quella che passa per le cucine popolari, l’Opera della Provvidenza, casa Madre Teresa di Calcutta, il Pane dei poveri, luoghi di carità concreta e al tempo stesso simboli potenti, offerti a questa nostra città perché non smarrisca, pur nelle preoccupazioni del presente, la certezza che «la vera, l’unica civiltà degna dell’uomo e che può assicurare il vero progresso è la civiltà dell’amore, non quella dell’egoismo e della prepotenza. E l’amore guarda sempre oltre se stessi, oltre muri e barriere». Lo ricordano anche le preghiere dei fedeli, in cui l’assemblea presenta al Signore le nuove generazioni, «dono singolare» che attende un reale sostegno per realizzare le sue speranze, i tanti fratelli qui giunti profughi da terre martoriate dalla guerra, i disoccupati, senza tetto, immigrati, malati e carcerati, affamati e assetati: di cibo, ma prima ancora di vera giustizia.
E con loro, la diocesi prega per la chiesa universale e per ciascuna comunità parrocchialeIn questa domenica 21 giugno sono tutte qui, attorno al loro vescovo, «quasi a restituire – ricorda il vicario generale mons. Paolo Doni – le tante visite ricevute in questi 25 anni. La salutiamo così, con la preghiera e un augurio: che le rimanga in fondo al cuore la nostalgia di questa nostra chiesa che ha saputo amare e che ha camminato assieme a lei per tutti questi anni».
