“Vorrei solo che, incontrandomi, qualcuno potesse riconoscere in me quell’asino che portava Gesù a Gerusalemme: felice non per sé, ma solo per averlo portato, anche solo per un tratto, tra la folla e la polvere della strada”. Don Antonio Loffredo ci tiene a chiarirlo fin da subito: la fiction “Noi del Rione Sanità”, in onda dal 23 ottobre su Rai1, non racconta tanto la sua storia, quanto la vita di un’intera comunità che ha scelto di resistere e rinascere. Al Rione Sanità ci è arrivato da prete, ma prima ancora da uomo che conosce la strada. Dopo l’esperienza nella periferia orientale di Napoli, tra tossicodipendenti e detenuti, è stato mandato nel cuore del centro storico, in un quartiere segnato da povertà, diffidenza, fatalismo: “L’unico mantra era: le cose non possono cambiare”. Eppure, anche lì, qualcosa si è mosso. Anzi, qualcuno.
Don Antonio non ha calato progetti: ha condiviso vite. Ha intercettato i “paranzini” di strada, li ha ascoltati, ci ha viaggiato insieme, si è fatto compagno.
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“Alla Sanità ci si annusa come i cani – dice – e poi si diventa tribù.”
Quei legami sono diventati sogni, e i sogni progetti. Il primo passo è stato restituire vita alle catacombe di San Gennaro, trasformandole in un luogo non solo visitabile, ma abitato. Così è nata la cooperativa “La Paranza”, oggi tra le più grandi realtà culturali del Mezzogiorno, con 70 giovani assunti a tempo indeterminato. “Ragazzi che un tempo erano stati respinti dalla scuola – racconta – ora tengono lezioni alla Bocconi o fanno ricerca all’estero, ma restano nella cooperativa. Perché quella è casa”. È il “sistema Sanità”: educazione, cultura, spiritualità intrecciati nel quotidiano.
Con lo stesso sguardo, nel tempo, anche le chiese del quartiere sono tornate a vivere. Non solo liturgia: ma musica sinfonica, teatro, sport, relazioni. “Una chiesa non perde la sua dignità se dentro ci crescono i suoi figli”, afferma. Dopo vent’anni, il vescovo gli ha chiesto di iniziare una nuova avventura: ricucire il tessuto del centro antico di Napoli, dove decine di chiese sono ormai chiuse. Don Antonio ha accettato, a patto di non abbandonare la logica del “noi”. È nata così la fondazione di partecipazione “Napoli C’entro”, con un progetto che parte dalla Cattedrale: tenerla aperta sempre, gratuitamente, con giovani formati all’accoglienza, capaci di raccontare con competenza ma soprattutto con umanità. In pochi mesi, oltre 80mila visitatori. Altre due chiese sono già state affidate: Sant’Aniello a Caponapoli e San Giovanni a Carbonara. “Stiamo formando 60 ragazzi: i primi 20 sono già assunti, gli altri arriveranno. Vogliamo che questi luoghi tornino a essere case di comunità”.
“Se paghiamo tutto, anche le chiese, dove nutriranno l’anima i poveri?”
Il modello è la gratuità, resa sostenibile da una partecipazione collettiva: ognuno può donare, anche solo un euro, per tenere aperta la bellezza. “È il contrario della rassegnazione. È la resurrezione quotidiana”. E Napoli? “Non è una città moribonda. È viva, come New York quando ha cominciato a mettere le ali”, sorride don Antonio. Poi abbassa la voce, come a voler distinguere le cose essenziali da tutto il resto: “Io ho solo fatto il mediano. Non ho mai segnato i gol, li hanno fatti i ragazzi. Io prendevo palla e davo fiato all’azione”.
La fiction arriva in fondo a un cammino lungo, faticoso, pieno di svolte impreviste. “All’inizio non volevo parlare, non pensavo che servisse a qualcosa”, confessa. Ma il tempo, e le sfide, lo hanno spinto a uscire allo scoperto, a raccontare. E ha scoperto che anche questo può generare. “Avevo dei pregiudizi – ammette – ma ho capito che una fiction può nutrire. Raccontare questa storia, anche in prima serata, può accendere qualcosa”. Così, ora che va in onda, lui si mette da parte. Ancora una volta. Perché i veri protagonisti sono gli altri: “A un certo punto si sono innamorati. E quando i giovani si innamorano, fanno tutto: notte e giorno, con entusiasmo. Io ho solo provato a non spegnerlo”. Così è nato un quartiere nuovo, incastonato tra le colline e cresciuto sopra le sue ferite. Un quartiere che non si evita più: si cerca. E che può diventare modello anche per altri.
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“Se davvero Lui è risorto, allora tutto può cambiare. Anche un ghetto, anche una storia, anche una città.”
E mentre la fiction racconta, lui continua a camminare. Non c’è nostalgia, solo slancio. “Le cose belle non si trattengono: si seminano”. Napoli chiede ancora presenza, ascolto, idee. Le chiese chiuse non sono solo edifici: sono ferite. “Ogni chiave che riapre un portone è un atto di fiducia verso il futuro”. E ogni giovane che trova casa in quel futuro è una promessa che prende corpo. Alla Sanità, tutto questo è già accaduto. E può accadere ancora.