Chiesa | MondoDomenico di Guzman e Roberto Bellarmino. Santi cultori della Parola in situazioni ecclesiali ed epoche lontane, ma ugualmente travagliate
Sulla scena ecclesiale sarà l’ottavo centenario del “dies natalis” di san Domenico di Guzman a richiamare l’attenzione degli storici. Il 6 agosto 1221 a Bologna si concluse l’umana avventura di un sacerdote spagnolo che rivoluzionò il modo di essere prete fondando l’ordine mendicante dei Predicatori che univa la povertà evangelica e lo studio appassionato del Vangelo, l’apostolato e la contemplazione. Morendo in una cella presa a prestito, perché non ne aveva una propria, esortò i sui frati ad «avere carità, conservare l’umiltà e abbracciare una volontaria povertà».
Dopo la sua morte però i dotti domenicani, impegnati sulle sue orme a controbattere con le parole e con l’esempio le argomentazioni degli eretici, soprattutto Albigesi, vennero chiamati a collaborare a una delle istituzioni più controverse e nefaste della Chiesa cattolica, la santa inquisizione, al punto da coinvolgere anche il fondatore nelle tante “leggende nere”, non infondate, che nacquero attorno a essa.
Sotto l’oscura caligine inquisitoriale si manifestò la contestata santità di un altro personaggio di cui si ricorda quest’anno il centenario, il gesuita Roberto Bellarmino, morto quattro secoli dopo (e quattro secoli fa), il 17 settembre 1621. Nato a Montepulciano, passò anche per Padova negli anni della sua formazione, quando all’università insegnava pedissequamente il domenicano Ambrogio Barbavara. A Roma fu teologo papale, autore di testi ascetici e catechistici tra cui l’opera considerata il compendio dell’ecclesiologia tridentina, cardinale e arcivescovo di Capua. Polemizzò con fra Paolo Sarpi ai tempi dell’interdetto su Venezia; fu consultore del Sant’Uffizio nel processo contro Giordano Bruno, che finì al rogo; partecipò anche al primo processo contro Galileo Galilei, vietandogli di insegnare il sistema copernicano ma senza costringerlo ad abiurare.
Personalmente, condusse una vita austera, dedicata alla preghiera e al digiuno, esercitando costantemente la carità verso i poveri, a cui lasciò ogni suo avere. Il suo processo di canonizzazione durò eccezionalmente a lungo, anche per il parere negativo del vescovo di Padova Gregorio Barbarigo, e si concluse solo il 29 giugno 1930. L’anno dopo fu nominato dottore della Chiesa.
