Il due giugno è una festa colta, forse per questo poco partecipata, tanto che fu anche abolita. Ma ricca di senso, perché disegna un percorso: ricorda l’avvio di un processo di ripresa, di sviluppo. Tanto più significativo oggi. Sono settantacinque anni dalla scelta per la Repubblica, un anniversario importante. Non ce ne siamo resi conto del tutto, ma nell’arco di due anni in Italia, a causa del virus, ci sono state tante vittime quante nei primi tre anni della seconda guerra mondiale, dalle macerie della quale siamo ripartiti proprio nella data simbolica del referendum istituzionale, il 2 giugno 1946. Una data baricentrica, nel mezzo della vicenda dell’Italia unita, tra il 1870, il compimento dell’unità con Roma capitale, e l’oggi
C’è legge e legge. Il ddl “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, noto con il nome del primo firmatario, il Pd Zan, ha vistosamente due obiettivi paralleli: la tutela di persone deboli, fragili ed emarginate e l’affermazione ideologica. Sul primo registro si pongono gli articoli centrali, sul secondo, in tutta evidenza l’articolo 4 e gli articoli 7 e seguenti. A parte l’insistenza sull’ambiguo concetto di “genere”. Deve essere ben chiaro che questo doppio registro, anche se corrisponde ad una radicata linea culturale mainstream, ovvero indicata come pensiero dominante, almeno nei Paesi occidentali di capitalismo maturo, come ogni cosa, in democrazia, deve essere oggetto di una responsabile discussione. E di un bilanciamento
Per il virus siamo ormai abituati alla metafora bellica: e il 25 aprile è la festa della libertà riconquistata alla fine della guerra nazista e poi fascista, cominciata peraltro con la spartizione della Polonia tra Hitler e Stalin. E poi difesa da tutte le insidie e prevaricazioni.
Ci siamo ancora ben dentro, la pandemia. Eppure hanno ragione coloro (e sono tanti) che hanno salutato la decisione unanime del Parlamento di istituire la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di coronavirus come un gesto di buona politica, di politica buona. La tragica contabilità del virus, per cui la data è stata scelta perché è quella che ha segnato il maggior numero di vittime in Italia, l’ha sistemata in un giorno significativo. Il 18 marzo infatti sta in mezzo alla “Giornata nazionale - voluta da Ciampi - dell'Unità nazionale, della Costituzione, dell'inno e della bandiera”, che cade il giorno della legge di proclamazione dell'Unità d'Italia, nel 1861 e ad una Festività soppressa come ricorrenza civile negli anni Settanta ma cara a tutti gli italiani, San Giuseppe. L’astuzia del calendario, ovvero le ricorrenze contigue, ci possono dare allora la misura del significato che questo giorno oggi assume e può assumere in prospettiva. Deve essere una giornata di riflessione, di unità e di impegno
Il grande giurista cattolico lega il suo nome e la sua azione alla più complessiva storia del cattolicesimo tra i due secoli, ventesimo e ventunesimo. Operando sul crinale tra Chiesa e Stato, tra Santa Sede e Italia sa essere cattolico romano a tutto tondo e anche consapevole della laicità, in tutti i campi. La sua è una presenza che collega, che unisce, che stimola tutte le molteplici realtà di quello che un tempo si chiamava “mondo cattolico” ad evitare inutili e sterili risse, a dare frutti. Per operare positivamente nel cambiamento d'epoca in cui siamo immersi, i tratti della personalità di Giuseppe Dalla Torre sono oggi un propellente prezioso: fede schietta, sicura preparazione professionale, senso profondo della comunità e delle istituzioni
Non si può non cominciare da tanti, tantissimi gesti concreti, in tutto il mondo, che già sono in atto e cui bisogna dare rispiro, forza, coraggio. Il patto globale insomma indica un obiettivo grande, ma anche permette di mettere in rete e valorizzare tante energie, spesso mortificata. Un processo di portata storica, insomma che passa attraverso l’impegno di tutti e di ciascuno. Senza alibi per nessuno
Il 20 settembre 1870 si è consumato un conflitto: una breccia aperta col cannone, a pochi passi dalla Porta Pia disegnata da Michelangelo, con lacune decine di morti tra soldati italiani e zuavi pontifici. Il conflitto si è protratto per quasi cinquant’anni sul piano diplomatico, fino alla Conciliazione, l’11 febbraio 1929, quando il Trattato Lateranense ha riconosciuto la sovranità dello Stato della Città del Vaticano, che ormai non aveva nulla in comune con l’antico Stato della Chiesa. Ora, centocinquant'anni dopo, bisogna interrogarsi sul futuro, la prospettiva di questa città nella sua triplice dimensione cattolica e religiosa, italiana, universale. Una città chiamata, soprattutto in questa stagione di crisi prolungata in cui versa, direi a partire dal duemila, con il grande giubileo, a “diventare ciò che è”, ovvero un grande segno positivo
Esperti ed amministratori pubblici stanno trovando le norme concrete per il nuovo anno. Siano applicate con grande, grande realismo. L’obiettivo è ripartire. Ma non perché la scuola è un parcheggio mentre i genitori lavorano o l’università un parcheggio in attesa di trovare lavoro. Dobbiamo imparare a convivere col virus, che significa, molto banalmente e molto semplicemente, adottare, tutti e ciascuno, dei comportamenti prudenti. Comportamenti che richiedono disciplina e non ci sono eccezioni per ricchi e furbi. E se i comportamenti si basano anche sull'educazione, è su questa che bisogna investire.
I profittatori dei bonus – intesi i bonus come il più pratico intervento di emergenza - non sono da esecrare solo dal punto di vista etico. In linea di principio, paradossalmente, se l’Inps (a sua volta assai criticata per le inefficienze di gestione) ha erogato significa che secondo una logica formale e mercatoria ne avevano titolo. Ma sono ancora di più da esecrare perché sono espressione di un sistema altamente inefficiente. Rivelano ed esprimono un malessere strutturale, di cui, in quanto parlamentari, sono anche corresponsabili