Rovolon Agostino Fasolo, divenuto nonno, ha sentito la vocazione a raccontare la vita di una volta, tra il Monte Grande e il Monte della Madonna. L’urgenza del racconto, tutto a mano, è ora diventato un libro
Simone Branca è alla sesta stagione nella squadra granata, ormai da diversi anni in Serie B. Questa, però, è la sua prima da capitano, lui che viene da Busto Arsizio, ha sfiorato la Serie A con il Novara e ha vinto il campionato di seconda serie in Danimarca con il Vejle
Andrea Trotta guida la squadra padovana da cinque stagioni. Racconta gli esordi a Roma e l’importanza di sentirsi parte del gruppo. A 29 anni ha già una lunga carriera sportiva alle spalle e in futuro, forse, ci sarà l’informatica...
Un’amicizia, la loro, iniziata quasi 40 anni fa. Al tempo compagni di squadra al Bassano, era allora Serie D. Un campionato assieme, partite, allenamenti e soprattutto lo spogliatoio, quella quotidianità il cui ricordo ti porti inevitabilmente dentro e non a caso è proprio lo spogliatoio quel che quasi sempre ti viene a mancare quando smetti, non tanto il campo, quel terreno di gioco che rimane comunque un luogo democratico: lì dentro, chi sa, sa. Ebbene, dentro quello spogliatoio a Bassano c’era pure il sottoscritto e dunque è stato bello vederli assieme, rivederli e rivederci.
«Si giocava e giocavo in parrocchia, anche attaccante, bastava giocare. Poi, avevo otto anni, è venuto lì da me mio zio, da parte di mamma, si chiamava Enrico Alfano, ormai se n’è andato. Lui aveva giocato, anche in Serie B e in Serie C, faceva il preparatore dei portieri, e mi dice che l’indomani mi viene a prendere, che mi mette in porta, vediamo se mi piace. Così è cominciata e quanto tempo ho passato su quel campo, giusto terra e sassolini, mi ricordo ancora la gommapiuma che mi mettevo sui fianchi, per proteggermi, sembravo anch’io quasi rotondo».
Quel nostro primo incontro fu a Siena, la bellissima Siena. Lui che aveva appena fatto il salto dal Padova, dalla C1 alla Serie A, quasi sorpreso e stupito di quel che gli stava capitando.
«I miei con quel loro ristorante-birreria, io lì con la bici di mia sorella, bella gialla, ce l’ho ancora, che mi divertivo. Chiportava ai miei la carne era un amico di famiglia, lui aveva corso in bici, lui così a dirmi che mi avrebbe portato “a correre”, avevo cinque anni e ho dovuto aspettare di averne sei per cominciare. Un anello attorno allo stadio di calcio, strada asfaltata, ne chiudevano metà. I miei? Subito ok anche se loro sono stati sempre più vicini al calcio, a partire da mio nonno e poi pure mio padre, come dirigenti della società di qui e mia madre che con mia zia andava pure a pulire gli spogliatoi».
La squadra femminile della Pallamano Cellini Padova è nel campionato di Serie A1 ed è quasi interamente composta da ragazze afrodiscendenti. Uno spirito che nasce da lontano, accogliente sin dal principio. Qui c’è spazio per tutti, tranne per uno: il razzismo