Idee
(Prato) Dalle pietre di case abbandonate, sulle colline sopra Prato, è nato – grazie a volontari e benefattori – il Borgo Tutto è Vita. Un luogo dove si sperimenta la cura integrale della persona e si accompagna chi vive l’ultimo tratto della propria esistenza. L’idea è di padre Guidalberto Bormolini, religioso, scrittore, esperto in tanatologia, docente al master “Death Studies & the end of Life” dell’Università di Padova e presidente della Fondazione Tutto è Vita.
Padre Guidalberto, oggi come viene percepita la morte?
Oggi la morte è la grande esclusa. È ammessa solo nelle rappresentazioni spettacolarizzate, ma è rimossa dalla vita quotidiana. L’immagine della morte è diventata – dal sorgere del consumismo – qualcosa che contrasta con l’antropologia consumista dell’usa e getta, perché la morte pone un limite.
C’è quindi, a mio avviso, una stretta coincidenza tra il dominio del consumismo e l’esclusione della morte.
Come si può tornare a parlarne?
È urgente farlo, con gli strumenti giusti. Non parlarne non ci rende più sereni: ci costringe solo a convivere con fantasmi. Il carpe diem autentico funziona solo se l’attimo ha valore, e il valore nasce dal limite. I bicchieri usa e getta sono tali perché sono illimitati. E così finiamo per trattare la nostra vita allo stesso modo. Siccome ci illudiamo che sia illimitata, buttiamo via pezzi di vita essenziali e non ne godiamo per ciò che conta: le relazioni, la cura, l’amore per le persone. Parlare della morte significa imparare a guardare la vita da un altro punto di vista, riconoscendo la persona nella sua totalità – corpo, psiche e spirito.
È così che si riconcilia la morte con la vita?
Sì, perché la morte non è il contrario della vita. San Giovanni dice: “Chi non ama rimane nella morte”. L’opposto della vita non è morire, ma non amare. La morte fisica è parte della vita, ne è un fenomeno interno: come il sole che tramonta e poi risorge, il bosco che muore in autunno per rinascere in primavera, o il bambino che ‘muore’ per diventare adolescente.
La vita si rigenera passando continuamente attraverso piccole morti. Parti non essenziali di noi muoiono: ciò che conta davvero è immortale.
Quale ruolo hanno oggi gli hospice?
Penso che, se gli hospice si attenessero all’antropologia originaria intorno alla quale sono nati — perché tutte le cure palliative nascono dal pensiero e dall’intuizione di un’infermiera inglese, Cicely Saunders, cioè che siamo fatti sia di corpo sia di spirito — rappresenterebbero una visione di cura esportabile a tutta la medicina, non solo alla cura sanitaria del fine vita. Quell’approccio dovrebbe essere applicato ogni volta che c’è una malattia grave, perché se affronti la sofferenza dal punto di vista sia fisico, che psichico e spirituale, tratti chi soffre come un essere umano nella sua interezza. Se lo vedi invece solo come un corpo non ti stai prendendo realmente cura di quella persona, che è un’unità di più dimensioni. L’hospice nasce per offrire questa possibilità di cura integrale. Non sempre, però — nonostante la buona volontà di chi ci lavora, spesso di altissima qualità — si riesce a offrire un accompagnamento davvero integrale. Questa è una grande sfida, e anche una necessità urgente: che tutti gli italiani possano avere cure palliative integrali, cioè che, quando la malattia è grave, siano abbracciati nel corpo, nella psiche e nello spirito.
Le cure palliative sono una “benedizione”, dice. In che senso?
Permettono di attraversare i tempi ultimi senza essere devastati da sofferenze ingestibili. È molto importante che tutti i cittadini vi abbiano accesso. Però, col tempo, in molti contesti, questo termine è stato ridotto a “farmacologia del dolore”. Mentre “palliativo” deriva da pallium, il mantello di san Martino, che avvolge il sofferente nella sua totalità: corpo, psiche e spirito. È un gesto di amore. Quando il dolore è refrattario al trattamento, la sedazione profonda consente di accompagnare dolcemente la persona. Tendo a dare anche a questo un valore spirituale: è come essere assorti nella propria profondità. Se si è preparati bene a questo momento, lo si può vivere come uno stato meditativo e contemplativo. Anche quando una persona è sedata per dolore insopportabile la relazione resta possibile. Parlo da poeta, non da scienziato, ma so che anche molte ricerche scientifiche attestano che persone in uno stato di coscienza più profondo, anche in coma, percepiscono la vicinanza amorevole. Amare ed essere amati rimane possibile fino all’ultimo respiro. E, credo, anche oltre l’ultimo respiro.
Perché allora cresce la richiesta di suicidio assistito?
Perché molto spesso si crede che sia l’unico modo di affrontare la sofferenza quando diventa ingestibile. Ma una ricerca fatte in Francia, dimostra che se una persona ne fa richiesta ma è curata integralmente e si sente amata ritira la sua decisione. Uno degli studi più significativi è stato condotto nella Maison médicale Jeanne Garnier di Parigi, il più grande centro di cure palliative della Francia. Su 2157 pazienti presi in cura in due anni il 9% ha manifestato desideri di morte, ma solo il 3% ne ha formulato una concretizzazione (eutanasia) e una volta presi in cura globalmente dalle cure palliative il 90% di questi non ha reiterato la domanda.
Il loro reale bisogno era di cura e di amore, e spesso il timore è quello di essere solo un peso per gli altri.
Credo che non ci sia una reale urgenza di “erogare la morte” in medicina: c’è urgenza di soccorrere integralmente chi soffre. Di stargli accanto con una vicinanza amorevole, prendendosi cura della persona nella sua interezza. Non basta una buona assistenza medica o infermieristica, che già fa tanto – e non lo metto in dubbio -. È necessario che la persona si senta amata e abbia possibilità di amare.
C’è un episodio di accompagnamento alla morte che le è rimasto nel cuore?
Sì. Una volta una persona ammalata, molto attiva e impegnata anche socialmente, in un momento di rabbia – ormai costretta a letto da tempo -, mi disse: “Con tutto quello che potrei fare per gli altri, sono inchiodato a questo letto!”. Mi colpì quella parola: inchiodato. Pensai: “C’è qualcuno che, inchiodato a un legno, ha salvato il mondo”. Spesso le richieste di concludere anticipatamente la vita nascono in realtà dal timore di sentirsi inutile, un peso per gli altri. Perché non siamo capaci di far capire che, fino all’ultimo respiro, si può essere — proprio in quanto “inchiodati” — partecipi di quel piano meraviglioso di salvezza che l’Amico divino incarnandosi ha voluto offrirci? Proviamo a leggere le esperienze della vita anche con occhi più spirituali che materiali…
E un ricordo personale?
Il primo accompagnamento che ho fatto, da ragazzo. Il mio maestro di chitarra, malato di tumore alle vertebre, si era molto aggravato e la moglie mi chiamò per salutarlo perché forse non sarebbe arrivato all’indomani. La mattina dopo arrivai preoccupato, ma entrando nella sua stanza, lo trovai con il volto radioso. E gli domandai come fosse possibile che avesse quel volto luminoso. Lui non era credente. Ma mi indicò il crocifisso sulla parete e mi disse: ‘Lo vedi quello? Stanotte ho imprecato contro di Lui, perché ho sgobbato tutta la vita – faceva il fornaio e insegnava chitarra, ha cresciuto una figlia disabile, ha vissuto sempre per gli altri -. Finalmente – diceva – sono andato in pensione e volevo godermela un po’. Invece mi sono ammalato di tumore alle vertebre – che era dolorosissimo -. Stanotte gli chiedevo perché mi hai fatto ammalare proprio ora che potevo godermi la vita? – mi disse -. E poi mi raccontò: ‘A un certo punto non riuscii più a parlare e vidi come aprirsi un velo davanti gli occhi. Quando tornai a parlare, gli dissi: ‘Grazie del tumore che mi hai donato: quando mai mi sarei fermato, di notte, a parlare con te, se non mi fossi ammalato?”. Morì poi dolcemente, perché da quella notte si fermava ogni sera a parlare con Lui.