Quando la tecnologia incontra la fragilità. Dal 10 al 12 ottobre il monastero benedettino di Santa Scolastica a Subiaco ha ospitato il seminario “Care robot: umanoidi per la cura”, promosso dal Centro Studi Scienza&Vita in collaborazione con l’Università Europea e l’Università Campus Biomedico di Roma. Un evento che ha riunito studiosi di robotica, bioetica, filosofia e medicina per riflettere su una delle frontiere più complesse dell’innovazione: l’integrazione dei robot nella relazione di cura. Non semplici strumenti, ma presenze capaci di interagire, accompagnare, sostenere. Ma fino a che punto?
Una nuova grammatica della cura. Loredana Zollo, ordinario di bioingegneria al Campus Biomedico, ha sottolineato come i care robot rappresentino “una risposta potenziale all’invecchiamento della popolazione e all’aumento della domanda di assistenza”. Il loro impiego si estende oltre il supporto fisico, includendo anche aspetti emotivi, cognitivi e relazionali. Tuttavia, ha avvertito, “esiste un divario tra le aspettative alimentate dai media e lo stato reale della ricerca:
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la promessa è grande, ma la realtà è ancora in costruzione”.
Quanto i robot devono somigliare a noi? E’ la domanda cruciale posta da Federica Cordella, docente di bioingegneria (Campus Biomedico).
“La somiglianza può generare fiducia, ma anche inquietudine”,
ha spiegato. “Non è solo questione di sembianze, ma di presenza: il tocco, la voce, la condivisione dello spazio”. Anche se l’empatia può essere simulata da chatbot, la presenza fisica resta per molti insostituibile. “Forse ciò che rende umano un robot – ha concluso – è la sua capacità di esserci davvero”.
Robot e cure palliative: una sfida delicata. Questo l’ambito esplorato da Francesco Scotto Di Luzio, anch’egli docente di bioingegneria (Campus Biomedico), che parla di “una sfida e un’opportunità per ripensare la tecnologia come sostegno alla dimensione umana”. I robot possono offrire nuove forme di accompagnamento, ma solo se progettati con un approccio centrato sull’uomo. “Dignità, autonomia e vulnerabilità – ha ricordato – non devono essere compromesse”. Da qui l’importanza della
Valore, non solo volume. Eugenio Di Brino (nella foto), docente di economia sanitaria (Università Cattolica), ha richiamato l’attenzione sulla necessità di spostare il focus del Servizio sanitario nazionale dal volume al valore. “Il vero obiettivo – ha detto – deve essere migliorare gli esiti per i pazienti, ottimizzando ogni euro speso”. La salute va custodita come “bene comune”, e la tecnologia deve contribuire a questo scopo senza sostituirsi alla relazione umana.
Tecnologia e natura umana: imitazione o irriducibilità? Una riflessione sulla natura “tecno-logica” dell’essere umano, sottolineando però che non ogni tecnologia è umanizzante, è quella offerta da Gianfranco Ghilardi, filosofo e bioeticista (Campus Biomedico). “La differenza tra imitazione meccanica e mimesi umana è sottile ma decisiva – ha spiegato -. L’essere umano è irriducibile non perché inimitabile, ma perché capace di astrazione e contestualizzazione”. Per questo,
“la replica tecnica, per quanto sofisticata, non può sostituire la relazione autentica”.
Il corpo che cura. Barbara Scheidegger ed Elena Garavelli, esperte di Kinaesthetics, hanno posto l’accento sul ruolo del corpo e del movimento nella cura. La neurobiologia, hanno sottolineato, dimostra che “il benessere nasce dal tocco e dalla sincronizzazione: l’ossitocina, l’ormone della felicità, si attiva nel contatto fisico”. La cinestetica, che unisce cibernetica e cura, insegna che il movimento consapevole restituisce dignità e autonomia. Anche i robot, quindi, devono imparare a “muoversi” con rispetto.
Tra fiducia e timore. Si possono sintetizzare così i risultati del sondaggio condotto tra giugno e luglio da Beatrice Rosati (nella foto) responsabile coordinamento e comunicazione S&V, dal quale emerge una tensione profonda:
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i care robot sono percepiti come strumenti utili, ma non come sostituti della relazione umana.
“L’accettazione – ha spiegato Rosati presentando i risultati – è condizionata dal mantenimento del contatto umano, e il timore dell’abbandono è reale”. L’82,8% dei partecipanti ritiene fondamentale porsi domande etiche sull’uso di queste tecnologie, mentre il 49,4% chiede più informazione e formazione. Di qui la conclusione: “Serve dialogo, bioetica, consapevolezza”.
Etica come bussola. A chiudere il seminario è stato Victor Tambone, bioeticista e docente di medicina legale al Campus Biomedico con un monito chiaro: “L’unico soggetto morale è l’essere umano. Non possiamo delegare la responsabilità etica ai robot o agli algoritmi”. Serve pensiero critico, progettazione consapevole e una logica proattiva che metta la tecnologia al servizio del bene comune:
“L’etica non è un ornamento, ma una bussola”.
Tra etica e antropologia. Il seminario di Subiaco ha dunque mostrato che i care robot non sono solo una questione tecnica, ma una sfida culturale, antropologica ed etica. Non si tratta di scegliere tra uomo e macchina, ma di costruire una convivenza che valorizzi la fragilità, la presenza, la relazione. Perché prendersi cura è sempre un atto umano.