Idee
La passione per viaggiare, raccontare, informare non viene scalfita nemmeno dall’“autopensionamento anticipato”. Carmen Lasorella (70 anni, figlia dell’ex partigiano Salvatore e di Angela Tilena, farmacista) evoca i fondamentali del mestiere più bello: «Il giornalismo per essere autorevole deve essere autonomo, documentato, possedere un’esperienza e deve essere capace di difendere quello che ritiene la notizia corretta, nel rispetto dei più deboli». Dopo una laurea in Giurisprudenza e i successi da atleta, debutta in Rai nel 1979 e un lustro più tardi diventa la conduttrice del Tg2 per dieci anni. È stata la prima giornalista televisiva a lavorare come inviata di guerra. Firma l’ultima intervista rilasciata da Mohammed Siad Barre, dittatore somalo. Nel 1995 a Mogadiscio è vittima di un agguato di mercenari: è ferita, mentre il collega cineoperatore Marcello Palmisano perde la vita insieme a dieci uomini della scorta.
Giornalismo ai tempi delle guerre infinite: come si possono ancora raccontare?
«Basta fare il proprio lavoro e farlo bene, rispettarlo e soprattutto rispettare le vittime, perché le guerre ne procurano troppe. Quindi è questo l’elemento: la responsabilità. E naturalmente l’indipendenza, l’autorevolezza, il fatto di documentarsi: indispensabile perché stiamo vivendo una fase di giornalismo schierato che non ha proprio la benché minima ragione e non serve a nessuno, se non magari a chi lo finanzia e a colui che viene finanziato. Il giornalismo deve ritrovarsi proprio all’epoca dei social, in cui ci sono mille fonti, ma c’è comunque la capacità di dare informazioni e notizie vastissime. La differenza dovrà farla l’autorevolezza del giornalista».
La Rai… era servizio pubblico, oggi cos’è diventata la televisione?
«Non è più, da troppo tempo, un servizio pubblico. È un fatto. Sono andata via nel settembre 2019, perché non potevo proprio più lavorare in quell’ambiente. Una scelta serena, rinunciando anche ai quattrini, anticipando la pensione. Ho amato e amo la professione: non è che abbia smesso, perché continuo in maniera diversa. Scrivo, parlo, mentre prima andavo sui luoghi e avevo il contatto diretto con i fatti. Adesso ho la prospettiva che aiuta comunque a leggerli».
Donne sempre più protagoniste nell’informazione, giusto?
«Lo trovo positivo. Perché per evidenti ragioni, i fatti sono quelli, ma cambiano sempre gli occhi. La sensibilità, il proprio mondo, tante cose fanno la differenza anche tra donne e uomini. Ci sono persone, colleghi sensibilissimi, con una capacità di analisi straordinaria; altri che lo sono meno, che vanno un po’ con la pala. E per quanto riguarda le donne, forse per troppo tempo sono rimaste fuori da questo mestiere. Quando ho cominciato a fare il corrispondente di guerra, quella era la situazione. Tutti i colleghi che magari erano pieni di carinerie quando sono diventata un competitor, non le hanno manifestate più…».
Cosa fa la differenza nel mestiere?
«Si consumano le scarpe, perché bisogna stare nei luoghi dove accadono i fatti. Da lontano, per carità, si può fare benissimo se quei luoghi li conosci, se hai contatti e fonti dirette che ti possono aiutare a capire ciò che succede. Tuttavia l’odore della notizia produce la differenza. Oltre a essere fatto con i piedi, è un mestiere che va fatto con il cuore e con la testa, perché si parla della vita. Quindi riguarda tutti noi, a cominciare dai bambini fino agli anziani. E soprattutto riguarda i popoli, la storia, la cultura, i luoghi. Un mestiere straordinario: per me, il più bello del mondo».
Nell’esordio letterario, con Vera. E gli schiavi del terzo millennio, si racconta il “calvario” dei migranti.
«Ho scelto di scrivere un romanzo sul tema delle migrazioni – che avevo anche affrontato nell’ambito del Master universitario a Roma, di cui avevo la direzione – perché ho ritenuto che bisognasse usare i sentimenti. Per cercare di andare oltre il muro legato alla propaganda, all’uso massacrante, sistematico, ossessivo, dei social che descrivono tutto il male possibile per chi viene da noi, indicandolo come qualcuno che toglie, abusa, quant’altro. Nel nostro mestiere non dobbiamo usare i sentimenti, perché deve far premio la cronaca, salvo che poi con il commento ci si distingua rispetto alla notizia. Devo dire che, appunto, mi è piaciuto molto perché ho vissuto la dimensione che non conoscevo: scrivere mettendoci dentro il cuore, lasciando spazio alle emozioni e quindi rabbia, felicità, gioia, paura. Ed è stata un’esperienza straordinaria».