IdeeL’ecologo Emilio Padoa Schioppa parte dalla responsabilità nei confronti delle nuove generazioni e dalla relazione tra le popolazioni di tutto il mondo
Affrontare la questione della crisi climatica oggi significa anche farsi carico della giustizia sociale. In primis di giustizia intergenerazionale – chiedendosi quale pianeta stiamo consegnando alle prossime generazioni – e di giustizia tra popolazioni che abitano aree diverse della terra, alcune privilegiate perché hanno accesso alle risorse e altre che subiscono molti degli effetti negativi causati dal peggioramento della situazione climatica.
Ne è convinto Emilio Padoa Schioppa, ecologo, docente di Ecologia del paesaggio e Biologia all’Università Milano Bicocca, che il 29 settembre scorso, nell’ambito di Solidaria a Padova, è intervenuto sul tema “Crisi ecologica e giustizia sociale” in un convegno promosso da Fondazione Lanza.
Perché l’attuale crisi ecologica ha a che fare con la giustizia sociale?
«Appare distintamente che tutti i problemi generali, dall’inquinamento delle acque all’alterazione dei cicli biogenetici passando per la perdita di biodiversità, impattano sulla popolazione mondiale in termini di giustizia, in particolare sul rapporto tra generazioni. Le risorse che distruggiamo oggi le sottraiamo alle generazioni future. Una parte importante della discussione sulle misure da intraprendere per rallentare il cambiamento climatico e invertire la tendenza verte sulla domanda “Come computiamo i costi?”. Rispondere che le spese da sostenere per rimediare all’inquinamento vanno scaricate per quota-nazione oppure pro capite significa fare scelte opposte. Stati come Cina e India che, insieme hanno quasi tre miliardi di abitanti, sarebbero chiamate a pagare costi insostenibili».
E non potrebbero accettare un conteggio di questo tipo, anche perché l’inquinamento non l’hanno prodotto tutto loro.
«Oggi noi vediamo le conseguenze di problemi che hanno base storica, problemi avviati decenni orsono rispetto ai quali i Paesi emergenti si dichiarano “innocenti” a ragione. L’inquinamento storico l’abbiamo provocato noi Paesi occidentali, ma se ragioniamo così andiamo incontro a un fallimento certo. Rispetto al clima, o ne veniamo fuori insieme o falliamo. Una crisi globale necessita una risposta globale, non basta l’impegno solo di alcuni Paesi. Rispetto alla transizione ecologica il mondo più sviluppato è partito per primo e deve stimolare processi analoghi nel resto del pianeta senza compromettere lo sviluppo».
Chi deve occuparsi di cambiamento climatico? Le singole persone oppure gli Stati?
«Vanno percorse tutte le strade: i singoli governi e le istituzioni sovranazionali coordinandosi tra loro devono impostare la rotta, approvare norme che siano coercitive. L’impianto degli accordi di Parigi andava in quella direzione. Allo stesso tempo anche le amministrazioni locali, a livello intermedio, possono adottare scelte mirate, non necessariamente identiche tra loro, per esempio dal Trentino alla Sicilia, perché le specificità sono differenti. Infine, i singoli possono adottare stili più consapevoli e in molti lo stanno già facendo, ma non è detto che tutti debbano fare le medesime scelte. Non credo, per esempio, funzionerebbe una società che impone a tutti di essere erbivori. Però molti rifiutano carne da allevamenti intensivi, altri optano per quanto possibile per l’uso della bici per ridurre il peso della propria impronta ecologica».
Nel suo libro Antropocene lei sottolinea come l’attuale crisi climatica possa rivelarsi un’opportunità per ripensare al pianeta Terra.
«L’impatto che l’uomo ha avuto sul sistema è grande e ormai evidente a tutti, ma d’altra parte non ricordo altro momento nella storia nel quale la ricerca di una risposta a problemi ambientali è posta in modo prioritario su tutti i tavoli. Il ritorno su questi temi dell’amministrazione Biden apre a qualche speranza in più».
In Europa abbiamo il dovere di non sprecare la ripresa post pandemia e di guidare il rilancio dell’economia su binari orientati alla sostenibilità. «Cooperare tutti insieme è una possibilità che va esplorata sul piano politico – sottolinea il prof. Padoa Schioppa – Mai fino a ora l’umanità tutta si è trovata nella condizione di dover affrontare un problema che richiede una risposta unitaria. L’assemblea generale dell’Onu ha espresso delle indicazioni, ma il sistema delle decisioni è filtrato dal Consiglio di sicurezza, nel quale cinque Paesi mantengono il diritto di veto palesando così un deficit democratico».
