MosaicoCrisi ucraina. Gli aumenti dei costi energetici, il rincaro e il rischio mancanza di concimi e cereali, hanno messo in primo piano la necessità dell’autosufficienza energetica e alimentare del Paese
La crisi scatenata dalla guerra in Ucraina ha messo a nudo la debolezza del sistema produttivo europeo e in particolare italiano. A essere posta in luce è stata la dipendenza non solo dalle risorse energetiche ma anche da moltematerie prime alimentari straniere. Il caro dei costi ha infine messo a rischio alcune produzioni diventate d’improvviso non più convenienti. Qual è la situazione attuale e quali sono le prospettive? «Il momento che stiamo vivendo – riassume Carlo Salvan, imprenditore agricolo e vicepresidente regionale di Coldiretti – e i mesi o anni che avremo davanti sono l’insieme di un combinato disposto di più elementi. Uno di questi è il caro energia, che non si riflette solo sulla benzina. Il principale concime in agricoltura è a base di azoto e si chiama Urea: si usa il metano per produrlo e i suoi costi sono schizzati da 35 a oltre 100 euro al quintale. Non solo: non se ne trova perché, proprio per motivi economici, uno dei principali stabilimenti italiani ha interrotto la produzione. Lo stesso vale per altri concimi, come il nitrato ammonico, di cui siamo sempre stati grandi importatori dalla Russia. Il caro bollette influisce poi in particolare su aziende energivore come le stalle da latte».
Incide anche il caro delle materie prime?«C’è stato un rincaro di cereali e semi oleaginosi: il valore per quintale alle borse merci ha avuto un’impennata superiore a quella dell’uscita dalla pandemia. Il rincaro ha fatto contenti alcuni produttori ma ha creato problemi alle aziende di trasformazione e della zootecnia: produrre latte e carne è oggi molto più costoso. Questo si somma alle difficoltà commerciali, perché Russia e Ucraina sono tra i principali esportatori di cereali, il blocco delle navi sta creando scompensi alle disponibilità».
In Italia ci sono stati fenomeni di accaparramento di farine, ma nel complesso tutto appare tranquillo…«Sì, perché Russia e Ucraina non sono i nostri interlocutori principali per quei prodotti ma preoccupano possibili scompensi sul medio e lungo periodo. Con fenomeni pericolosi: vi sono Paesi come Turchia, Libano e il Nord Africa, in crescita demografica, che ne dipendono fino all’80 per cento. Se tra poche settimane finiranno le scorte potrebbero crearsi delle tensioni di carattere sociopolitico molto rischiose. A meno che la Cina, che ha fatto scorte di cereali e oleoginose, non provveda a rifornirli, estendendo così il suo ambito di influenza… senza spostare un solo carro armato! Come si vede, il quadro è articolato e complesso».
Un’eventuale pace non risolverebbe il problema?«La pace non segnerà un immediato ritorno alla normalità. Molti campi sono stati devastati, altri non sono stati seminati. La criticità potrebbe perdurare a lungo».
Questa crisi ci insegnerà a ripensare, oltre che le risorse energetiche, anche l’agricoltura?«Sì, e possiamo dire che il bene prezioso del futuro non sarà il petrolio ma il cibo. Tutto ruota sulla capacità dei Paesi di essere in grado di fornire ai propri abitanti il cibo di cui hanno bisogno. Questa situazione devastante, con effetti che cambieranno il nostro modo di vivere e pensare, deve essere l’occasione per riportare l’attenzione di chi guida le istituzioni a pensare a essere autonomi. Per troppo tempo ci siamo illusi di poter delegare ad altri il compito di fare cereali e soia nel nome della globalizzazione, preoccupandoci solo di spuntare il prezzo più basso. Dovremmo pensare a produrre almeno il 70 per cento del fabbisogno di ogni cosa».
Dove troviamo i terreni per farlo?«Dobbiamo tenerci stretti i 13 milioni di ettari di suolo agricolo e renderli produttivi: attrezzando le aziende, dando loro l’acqua, limitando il consumo di suolo che è una vera piaga, come dimostra la questione degli impianti fotovoltaici a terra, un rischio non ancora scongiurato. E dobbiamo consentire alle aziende di avere reddito, se vanno in negativo il suolo verrà abbandonato. È così che il patrimonio agroalimentare italiano si impoverisce».
