La cosiddetta “Guerra dei dodici giorni” tra Iran e Israele è stata vissuta con angoscia anche a Padova, da chi in Iran ha le proprie origini, la propria famiglia e i propri amici.
È il caso di Mahzad Semsar, studentessa di psicologia all’Università di Padova originaria di Kashan, una cittadina nell’Iran centrale, a 70 chilometri dal sito nucleare di Fordow e 40 chilometri da Natanz: «La maggiore preoccupazione delle persone che vivono nella mia città era la possibilità di perdite di materiale radioattivo. Nonostante questo, la mia famiglia è rimasta lì durante quei giorni. Li ho pregati di andarsene, ma si sono rifiutati. Del resto, dove sarebbero potuti scappare? La loro vita è lì, il loro lavoro e tutte le persone che conoscono vivono in quella città». Un secondo motivo per cui molte persone non hanno cercato di fuggire è stata la propaganda di regime: «I messaggi dati dai media nazionali dicevano semplicemente che non c’era nulla di cui preoccuparsi, perché la Repubblica islamica stava vincendo. I miei familiari, che sono conservatori, mi ripetevano lo stesso discorso quando li chiamavo – spiega Mahzad Semsar – Le autorità non avevano previsto nessuna misura di sicurezza, non suonavano nemmeno le sirene per allertare in caso di bombardamento. Erano i civili che davano informazioni, sui loro social, riguardo a come prepararsi in caso si dovesse fuggire e su come comporre un kit di emergenza». Nel frattempo, però, la capitale era sotto attacco israeliano e le vittime civili aumentavano. Mehzad, che a Teheran ha frequentato l’università, ha partecipato ad alcune delle manifestazioni contro il regime e ha conosciuto in prima persona la repressione prima di trasferirsi a Padova nel 2022, racconta: «Durante quei dodici giorni la città era sotto attacco, le forniture di energia si interrompevano ogni giorno, in alcuni distretti a nord di Teheran anche l’acqua veniva tagliata perché i bombardamenti avevano danneggiato la rete idrica». È proprio tenendo presente le condizioni in cui stavano vivendo gli iraniani nella capitale che si comprende quanto fossero offensive, secondo Mahzad, le dichiarazioni di Donald Trump, Benjamin Netanyahu e di certa stampa occidentale che incitavano al cambio di regime. «Se stai scegliendo quali tra le cose a cui tieni di più nella tua stanza ti porterai via mentre scapperai, come fai a pensare di scendere in strada per resistere? Contro cosa dovresti lottare mentre stai cercando di sopravvivere alle bombe? Mentre tremi al suono di ogni esplosione e non riesci a dormire? Inoltre, la repressione da parte del regime stava aumentando: la città era piena di checkpoint e le autorità controllavano le persone, perquisivano le automobili in cerca di equipaggiamento militare o di presunte spie israeliane. Adesso che la guerra è finita e il regime è debole, probabilmente se la prenderà con i gruppi più fragili, come la comunità di rifugiati afghani presenti in Iran e la minoranza curda che vive nel nord del Paese». Di fronte a tutto ciò, per chi come Mahzad ha vissuto questa guerra da Padova ma dei legami fortissimi in Iran, la preoccupazione che il conflitto possa ricominciare è presente, così come lo shock di ciò che questi dodici giorni hanno comportato: «Quando vedi la città in cui hai vissuto bombardata, i posti che conosci distrutti, realizzi che non si può mai essere pronti per qualcosa del genere. Nessuno era preparato anche se tutti potevano aspettarsi che prima o poi sarebbe successo».
Lunedì 30 giugno, un bombardamento israeliano ha colpito l’Al‑Baqa Café sul lungomare di Gaza city, uno degli ultimi posti ad avere internet nella zona, uccidendo 39 persone e ferendone almeno 50. Tra le vittime ci sarebbe anche il fotoreporter Ismail Abu Hatab, il 228° giornalista a essere ucciso nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023.