Storie
Una cerimonia commovente si è tenuta poche settimane fa al Tempio nazionale dell’Internato ignoto, in quartiere Terranegra, a Padova: l’arrivo dalla Polonia, città di Lambinowice, di diciotto urne avvolte dal tricolore contenenti i resti mortali di internati militari italiani (chiamati Imi) che hanno perso la vita durante la Seconda guerra mondiale. Giovani dai venti ai trentacinque anni, provenienti da varie Regioni del nord-Italia, imprigionati nel campo tedesco denominato Stalag 344; riconosciuti grazie alle piastrine identificative portate dai soldati, sono tornati a casa ottant’anni dopo quei fatti tremendi. Accolti con solennità lo scorso 8 ottobre dal parroco e rettore del Tempio, don Fabio Artusi, insieme alle autorità civili e militari, nonché dai rappresentanti dell’Associazione nazionale ex internati (Anei), hanno fatto finalmente rientro nelle loro famiglie.
Non è la prima volta che eventi come questo trovano spazio nel monumento nazionale di Padova, luogo sacro che è anche parrocchia di san Gaetano Thiene, voluto dall’allora parroco don Giovanni Fortin (1909-1985), arrestato dai fascisti nel dicembre 1943 in quanto fece nascondere alcuni militari alleati. Deportato nel campo di concentramento di Dachau, Germania, ne uscì vivo nel giugno del 1945 e volle che la nuova parrocchiale di Terranegra fosse eretta a ricordo delle vittime della deportazione: nel 1953 arrivò la salma dell’internato ignoto e il 3 settembre 1955 la chiesa fu consacrata.
Il Tempio è meta di visite da parte di scolaresche, turisti e cittadini, insieme ai vicini Museo nazionale dell’Internamento e Giardino dei Giusti (voluto dal Comune di Padova); vale la pena fare una visita e scoprire alcuni tesori presenti al suo interno. Già avviandosi lungo il viale, si incontrano 21 cippi di trachite che richiamano alcuni nomi di campi di concentramento e di protagonisti di quel tempo. Prima dell’ingresso in chiesa, nel cosiddetto pronao, si trova il sacello di don Fortin, insieme a piccole lapidi con i nomi di caduti nei lager. Nella cappella di sinistra, il sarcofago dell’internato ignoto: una salma prelevata da un cimitero militare di Colonia, Germania, che rimase due giorni accanto a quella sull’altare della Patria, a Roma, per poi essere trasferita definitivamente a Padova; sopra la tomba è collocata l’opera “Il Cristo di Buchenwald” dello scultore vicentino-dalmata Mirko Vucetich, che rappresenta Gesù morto, magrissimo come un prigioniero.
«Dello stesso autore è anche il grande crocifisso che riporta, in latino, la frase “Perdona loro perché non sanno quello che fanno” – racconta don Fabio Artusi – Cristo è rappresentato con un panno a righe e il triangolo rosso, simbolo dei prigionieri politici; dai suoi piedi grondano gocce di sangue che, raccolte dalle mani di un anziano sacerdote pelle e ossa (lo stesso don Fortin o uno dei duemila preti europei che vissero il suo stesso inferno nei campi di prigionia), bagnano l’elmetto di un soldato tedesco, che ha la testa abbassata verso un teschio, rappresentazione del male. A destra, un ebreo abbraccia con il suo scialle a righe il tedesco, poggiandogli una mano sulla spalla, mentre con l’altra si copre gli occhi, ricordando i drammi della guerra. Il crocifisso si completa con l’immagine di Maria addolorata e dell’apostolo Giovanni, collocate in un secondo tempo».
All’interno del Tempio, si trova anche una scultura della Pietà, che ricorda le madri cristiane morte durante la guerra e l’internamento, rappresentate da Mafalda di Savoia (lo stemma della casata si trova sopra l’opera). La principessa Mafalda, figlia del re Vittorio Emanuele 3° e moglie di un principe tedesco, rientrò in Italia dopo l’armistizio pur sapendo di rischiare l’arresto, a causa dell’accusa di tradimento del marito; vide per l’ultima volta i quattro figli nascosti in Vaticano, per poi essere imprigionata e morire a Buchenwald, nell’agosto 1944. L’opera rappresenta Gesù inginocchiato a testa bassa, Maria con gli occhi chiusi tiene la mano sulla guancia del figlio, impersonando il dolore di tutte le madri che vedono morire i propri figli. In chiesa sono presenti infine due altari con le pale di san Massimiliano Kolbe e di santa Teresa Benedetta della Croce (al secolo Edith Stein).
“Ricordare, imparare, non odiare”. Le tre parole campeggiano su una vetrata del sacello dell’internato, riassumendo tutto il significato di questo edificio: più di 650 mila furono gli internati militari italiani, circa 50 mila i morti in prigionia e altrettanti morirono dopo il ritorno a casa, per le malattie contratte nei lager.

«Il Tempio custodisce anche alcune reliquie: un pezzo della veste di santa Teresa Benedetta della Croce, un filo della barba di padre Massimiliano Kolbe e un pezzetto dell’abito religioso di san Tito Brandsma», evidenzia don Fabio Artusi. Quest’ultimo era un frate carmelitano olandese insegnante universitario e assistente dei giornalisti cattolici: a nome dei vescovi olandesi, incoraggiò le redazioni dei giornali a resistere alle pressioni naziste; per questo venne catturato e morì a Dachau. «I giornalisti sono colpiti anche oggi, per spegnere le loro voci e non far conoscere ciò che accade – afferma don Artusi – Sarebbe bello che i giornali cattolici italiani avviassero una sottoscrizione affinché la figura di Brandsma divenisse protettore di tutti i giornalisti impegnati in zone di guerra».
La legge 13 del 6 gennaio 2025 ha istituito la data del 20 settembre quale Giornata degli internati italiani nei campi di concentramento tedeschi. Accanto al Tempio sorge il Museo Nazionale dell’Internamento che sarà oggetto di un prossimo approfondimento su La Difesa.