L’idea originaria e profonda del Giubileo prevede di cessare ogni ostilità, liberare gli schiavi e i prigionieri, condonare i debiti materiali e, forse più difficile, quelli morali: le ingiustizie e le ingiurie subite e inferte, le violenze verbali e fisiche, le calunnie, i tradimenti. Si tratta di ristabilire le condizioni di partenza di una comunità – e tra comunità – sulla base della giustizia e della pace. È questa la proposta antica che la Chiesa rivolge ai governanti; non, genericamente, ai politici, ma a quei politici che hanno assunto istituzionalmente il compito di costruire il bene comune. Dunque nessun politico in realtà è escluso, dato che ogni politico (in teoria, ogni cittadino) deve prepararsi a governare: per quanto conflittuale e difficile sia stato il loro percorso, le persone che assumono responsabilità di governo devono uscire dalle ristrettezze di ogni visione parziale per abbracciare la comunità nel suo insieme; sono dunque quelle che più hanno bisogno di vivere un vero Giubileo interiore. Che cosa farebbe ogni governante se potesse ricominciare, ripulire la mente e il cuore dagli errori commessi, dall’incrostazione di pregiudizi, dalla pesantezza che il mestiere ha assunto, per ritornare alla radice ideale del proprio impegno, alla vocazione originaria? Il Giubileo è questa occasione di rinascita personale.
È solo il primo passo. Al politico, al governante in particolare, è chiesto inoltre di attuare il Giubileo politicamente, col linguaggio, i mezzi e i processi propri della politica e delle istituzioni. Per questo ci vuole una vocazione specifica, che va coltivata e custodita con la dottrina e con l’esperienza. La Chiesa deve fare la propria parte, come ha detto Leone XIV ai vescovi italiani il 17 giugno: “Lì dove le relazioni umane e sociali si fanno difficili e il conflitto prende forma, magari in modo sottile, deve farsi visibile una Chiesa capace di riconciliazione. […] Auspico, allora, che ogni diocesi possa promuovere percorsi di educazione alla nonviolenza, iniziative di mediazione nei conflitti locali, progetti di accoglienza che trasformino la paura dell’altro in opportunità di incontro […]. Ogni comunità diventi una ‘casa della pace’, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono”.
Ma tutto il resto spetta alla scelta di coloro che hanno una vocazione politica: che tipo di governante voglio essere? Anche ai nostri giorni non mancano i governanti che prendono quotidianamente decisioni terribili giustificandole con un autoproclamato mandato divino, senza avvedersi di tornare, in tal modo, alla logica nazista del “Dio è con noi”. Al di fuori di questa condizione di paranoia, nel mondo delle persone che vivono nella realtà, la relazione con Dio è sempre anche orizzontale: si misura con il rispetto e la misericordia che gli umani praticano gli uni verso gli altri. E troviamo questa concezione, che potremmo chiamare “governo del bene”, fin dall’antichità indoeuropea, come ci insegnano gli studiosi di linguistica. Il “rex” latino (come il “rajan” indiano e il “rix” celtico) aveva il compito di “regere fines”, cioè – spiega Emile Benveniste nel suo classico “Vocabolario delle istituzioni europee” – di “tracciare le frontiere in linea retta”, in riferimento alla delimitazione dello spazio sacro di un tempio o di una città; in questo senso, “rex” si riferisce al sovrano come guida, che detiene una conoscenza, che traccia la via da seguire, che conosce e conserva l’identità di un popolo e protegge lo spazio in cui vive. Questa figura del re come garante della prosperità del suo popolo si diffonde in gran parte dell’area indoeuropea occidentale. Pensiamo alla parola anglosassone “Lord” (Signore), che viene da hlāford (hlaf, pane), poi hlāf-weard, “guardiano del pane”; da parte sua, “Lady” viene da hlaef-dīge, “colei che lavora il pane”.
La storia e la tradizione ci trasmettono dunque due linee che si contrastano e si alternano attraverso i millenni. E il Giubileo, che oggi compie il suo percorso accompagnato da notizie quotidiane di distruzioni e violenze, ripropone ai governanti, ma anche a tutti noi, una scelta antica e nuova: essere i re della spada e della fame, o i re dell’aratro e del pane?