Idee
Davvero la scuola deve “servire” al mondo del lavoro?
Non è detto che l’istruzione debba necessariamente legarsi al solo sbocco professionale e al concetto di immediata utilità lavorativa
IdeeNon è detto che l’istruzione debba necessariamente legarsi al solo sbocco professionale e al concetto di immediata utilità lavorativa
Attenzione, camminiamo sulle uova. È una premessa necessaria a quanto segue, perché le questioni a proposito di scuola e lavoro sono da tanto tempo oggetto di discussioni e riflessioni diverse e controverse. Il dato da cui partire è la firma a fine luglio – come informa il ministero dell’Istruzione e del Merito – di un “protocollo d’intesa” tra lo stesso e il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), «che punta a individuare gli strumenti più efficaci per ridurre il disallineamento tra formazione e domanda di lavoro e favorire il passaggio dal mondo della scuola a quello professionale». Sembra la cosa più ovvia e sensata del mondo. Gli studenti escono dalla scuola e devono (?) trovare sbocco nel mondo del lavoro. «Il Protocollo – precisa una nota di viale Trastevere – prevede, tra le altre cose, un approfondimento dei percorsi di orientamento dei giovani, della conoscenza sulle nuove professionalità e opportunità occupazionali». E poi ci sono le dichiarazioni del ministro Valditara che sottolinea come si sia compiuto «un nuovo passo verso il superamento del divario tra domanda e offerta di lavoro». E aggiunge: «La scuola deve porre al centro il futuro dei giovani nel mondo del lavoro: deve aprirsi alle opportunità offerte dal territorio e alla domanda delle aziende, anche attraverso l’insegnamento di esperti, tecnici e professionisti provenienti dal mondo imprenditoriale». Renato Brunetta, presidente del Cnel, sottolinea le caratteristiche del “momento storico”, con i suoi forti cambiamenti (in particolare transizione ecologica e digitale). Scuola e lavoro, dunque. Ma è corretto l’accostamento senza mediazioni? In altre parole: davvero la scuola deve “servire” al mondo del lavoro? Tra gennaio 2005 e novembre 2007 una ricerca svolta nell’ambito delle Chiese dell’intero continente europeo e a proposito in particolare dell’insegnamento della religione, offriva provocanti prospettive e riflessioni proprio sul tema scuola-lavoro. In particolare, nel documento finale della ricerca e su sollecitazione speciale dei partecipanti dei Paesi del centro Europa, Germania in prima fila, veniva la considerazione/allarme su «un sistema d’istruzione transfrontaliero, sempre più pesantemente e durevolmente caratterizzato da interessi e criteri di tipo economico. In Europa – così il testo – sono molte le iniziative educative che prendono spunto dall’andamento delle economie di mercato. Basti pensare, ad esempio, agli studi sulla valutazione del rendimento scolastico Timss e Pisa (Programma per la valutazione internazionale dello studente, ndr), all’uniformazione dei corsi di studio e dei diplomi universitari a seguito del Processo di Bologna oppure allo European Qualification Framework nel campo dell’istruzione degli adulti. Molte di queste iniziative puntano soprattutto a sviluppare forze lavorative qualificate da poter impiegare in maniera flessibile all’interno dello spazio economico europeo». La denuncia è quella di una scuola “piegata” agli interessi del lavoro e dell’economia. Una scuola dove l’insegnamento religioso, per esempio, gioca un ruolo di sentinella: infatti «ha sempre voluto opporsi al pensiero funzionale dell’economia neoliberale, impegnandosi a favore di un’istruzione che andasse al di là della mera utilità», riferendosi a «un concetto di istruzione, che antepone l’integrità del soggetto prima di qualsiasi riflessione sull’utilità». Il documento sottolineava per questo il contributo dell’insegnamento religioso, ma a prescindere da questo solleva ancora oggi la questione spinosa: a cosa “serve” davvero la scuola? Vale la pena una riflessione in più. Magari controcorrente.
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