Chiesa
Certo, occorre impegnarsi per il bene, la pace, la fraternità. È necessario spendersi in prima persona. E occorre anche coraggio per farlo. Ma il coraggio, se ci si guarda dentro come donne e uomini, lo abbiamo tutti. Nella giornata di preghiera e digiuno per Gaza indetta dall’Unione internazionale delle superiore generali, la voce di Ernesto Olivero dal Sermig di Torino arriva come sempre: gentile ma ferma, dolce ma forte. E quello che dice non fa sconti a nessuno – come sempre – e come sempre mette tutti di fronte alla responsabilità della nostra condizione di esseri umani.
Olivero, attivista, scrittore italiano e fondatore del Sermig, dice al Sir: “Oggi Gaza ma anche il Sudan, l’Ucraina, Haiti, la Repubblica Democratica del Congo, la Siria, il Myanmar… e l’elenco potrebbe continuare. Chi guarda con empatia il mondo che brucia è come se facesse un viaggio senza fine nel dolore.
La guerra uccide, spezza vite innocenti, condanna al silenzio il bene, pregiudicando per decenni il futuro”.
Non c’è speranza, dunque? È tutto perduto? Olivero riprende il primo pensiero con cui è iniziata la conversazione e sottolinea: “Chi crede sa che il male non avrà mai l’ultima parola”. Pensiero da illusi, si potrebbe dire (e molti lo pensano e lo dicono). Fantasie di un’umanità ormai perduta dietro a scampoli di sogni buoni. Ma il creatore del Sermig che – non lo si deve dimenticare – è stato costruito dove prima c’era una fabbrica d’armi, avverte subito: “Non si tratta di essere ingenui o persone di buoni sentimenti, ma significa
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radicarsi nella speranza, alimentarla con le scelte di ogni giorno, con un impegno radicale per la giustizia e la pace.
Per questo è importante accogliere l’invito al digiuno dell’Unione internazionale delle superiore generali”.
Già, alimentare la speranza con le scelte di ogni giorno, anche le piccole scelte, con la ricerca di giustizia e di equità. Pronunciando una parola potente: fraternità. E pregando. E crederci, nella pace. Credere nell’umanità.
Olivero invita a “non stancarsi, non disperare, per andare oltre il senso di impotenza”.
Quella sensazione che prende alla gola, che soffoca, che pare ogni volta allontanare la speranza e avvicinare la disperazione. In fin dei conti, il cristiano non è mai disperato. Come pare difficile raggiungere questa condizione però. Ma deve essere così anche adesso. E Ernesto Olivero ricorda:
“Il Sermig è nato sulla speranza e sulla fraternità e vive oggi sempre sulla speranza e sulla fraternità. La bontà è davvero disarmante”.
E quindi, che fare? Essere buoni. Che non significa, ricorda nuovamente Olivero, essere ingenui ma attenti all’altro. “È la bontà che abbatte i muri, che disarma, che diventa strumento di dialogo, che alimenta la speranza”. Ma buoni come? Prima di tutto mettendosi al fianco di soffre, sentire con lui la paura, mangiare la stessa polvere, avere lo stesso sudore. E con chi soffre chiedere giustizia. Tenersi per mano. Stringersi. E cocciutamente cercare il bene. Continua Olivero discorrendo con il Sir e pensando a Gaza e a tutti gli altri luoghi di sofferenza: “Vorremmo poter alleviare il dolore di tutti, metterci a fianco della gente ed essere così strumenti di umanità buona e accogliente. Anche nella tragedia, nel dolore più atroce, è possibile coltivare il bene. Con una consapevolezza: può essere flebile, debolissima, appena accennata, ma solo la luce annulla il buio”. Si può fare ma, come si diceva all’inizio, occorre l’impegno di tutti.
“Ognuno di noi può essere, può farsi promotore e strumento di pace”,
aggiunge ancora Olivero. Il coraggio l’abbiamo dentro. L’umanità buona e accogliente anche.