L’estate è la stagione della vita all’aperto – meteo permettendo – e per molti rappresenta l’unica finestra dell’anno utile per viaggiare, partire, fare nuove esperienze e conoscenze. Si lascia la propria casa per qualche ora, giorno o settimana, in cerca di riposo, leggerezza, libertà. In tempo di vacanze ci viene naturale pensare che “vivere” significhi soprattutto uscire, andare altrove, respirare aria nuova. Ci penserà comunque il ritorno al lavoro, a scuola, al buio che arriva sempre prima a demolire ancora una volta il sogno di una vita diversa.
Ma deve per forza finire ogni volta così questa storia? E se invece, per una volta, chiudendo la porta di casa alle nostre spalle provassimo a domandarci se non sia proprio casa nostra la vera meta del viaggio? Se non sia, in fondo, il ritorno – e il ri-abitare – ciò che dà senso pieno al nostro partire?
Per anni anch’io ho considerato la casa come un semplice rifugio: un luogo di riposo dopo giornate colme di impegni, al massimo una proprietà da custodire con orgoglio e difendere con i denti. Strada facendo e cambiando diverse abitazioni, ho imparato che ogni stanza, ogni gesto domestico, può diventare la tappa di un cammino interiore. Una soglia attraversata, una tavola apparecchiata, un ripostiglio pieno di cose, un letto rifatto… tutto può rivelarsi occasione per scoprire noi stessi e incontrare l’altro e… l’Altro.
Certo, questo diventa possibile se accettiamo di uscire dalla logica puramente funzionale, che ci porta a vedere sempre e solo cose da fare, spazi da riempire e tempi da misurare, e rischiamo, piuttosto, l’azzardo della via simbolica per riuscire vedere “oltre” ciò che si vede, si tocca e si sente. Tra l’altro, questo credito di fiducia allo sguardo simbolico sulla vita è il requisito antropologico necessario per accogliere il senso teologico dei sacramenti e della liturgia cristiana, casa ospitale di riti e simboli che mediano per noi l’esperienza viva della salvezza, qui e ora.
Seguendo questa prospettiva, “casa mia” non è solo uno spazio da organizzare, arredare e sfruttare in vista di obiettivi materiali, per quanto legittimi e talora persino nobili, ma è anche e soprattutto lo specchio dell’anima, una mappa spirituale che mi orienta verso il cuore della vita.
Quante volte Gesù – nato come un senzatetto – entra nelle case! Bussa, si lascia accogliere, siede a tavola, e da queste cattedre domestiche ascolta, insegna e guarisce. Non predilige i palazzi o i templi solenni: sceglie piuttosto la stanza della suocera di Pietro, la cucina di Betania, la casa “infestata” di Zaccheo. Attraversa soglie ordinarie per compiere gesti straordinari, fino a quella «stanza al piano superiore» dove si consegna per amore “fino alla fine”.
Anche la Chiesa delle origini nasce tra le mura domestiche, a conferma del fatto che la fede cristiana germoglia nel quotidiano, lì dove amiamo, soffriamo, litighiamo e ci riconciliamo.
Eppure noi, inquieti discepoli di oggi, rischiamo di vivere nelle nostre case senza abitarle davvero: le attraversiamo in fretta, senza ascoltarle, mentre invece le stanze ci parlano eccome, raccontando chi siamo. Nel modo in cui le viviamo si riflette l’ordine – o il disordine – del nostro cuore. Imparare ad abitare significa ascoltare ciò che ogni singola stanza di casa narra circa le nostre relazioni, i desideri profondi, il dolore e l’amore che ci abitano.
Nel contesto dell’Anno giubilare, mentre la Chiesa ci invita al pellegrinaggio della speranza, abbiamo l’opportunità di scoprire che la “porta santa” più vicina e accessibile è proprio quella di casa nostra. Ogni volta che la varchiamo – uscendo verso il mondo o rientrando nella nostra intimità – Dio ci attende sulla soglia. Se impariamo a riconoscere la sua Presenza, ogni gesto domestico può diventare un passo verso la comunione: pulire una stanza come cura del cuore, aprire una finestra come invito al soffio dello Spirito, apparecchiare la tavola come preparazione all’eucaristia che celebriamo in comunità.
Ecco, allora, che il viaggio più avventuroso dell’estate non è verso una meta lontana, ma verso il nostro quotidiano. Non un viaggio che allontana, ma che riconduce: a noi stessi, alla nostra storia, al nostro cuore, alla Presenza che ci ama da sempre. Come il figlio della parabola, che ritrovò il volto del Padre proprio tornando a casa.
Buon viaggio verso casa, dunque. Perché tra stoviglie e abbracci, silenzi e parole condivise possiamo incontrare quella Presenza che trasforma la nostra casa nella sua dimora, e la nostra vita in un segno di misericordia e speranza per un mondo che ha sempre più bisogno di riscoprirsi Casa. Per tutti. Nella pace.
Marco Di Benedetto
Sposo e padre, liturgista, docente di religione al Liceo “P. Levi” di Montebelluna (TV)