16 ottobre 1943. E’ la data del rastrellamento del ghetto di Roma. Una retata antiebraica compiuta durante l’occupazione tedesca di Roma. Furono portate via 1.259 persone, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine, quasi tutti appartenenti alla comunità ebraica romana. Soltanto 16 di loro sopravvissero. Sono passati 82 anni. Ma ricordare quanto è successo, “è importante oggi come ieri e come domani”. Edith Bruck, scrittrice e testimone della Shoah ungherese, non si stanca di ripeterlo. Ha appena scritto un nuovo libro: “L’amica tedesca” (edito da La Nave di Teso). E quando al telefono il Sir le chiede se può rilasciare un’intervista sul valore della Memoria oggi, non ha un minimo di esitazione. “Facciamo subito. Sono pronta”, dice.
Quanto è importante “raccontare” e fare Memoria?
Faccio testimonianza da sessant’anni e lo farò finché ho fiato. E’ importante perché i razzismi, gli antisemitismi, tornano. Vanno e vengono ma non finiscono mai e quindi sempre assolutamente attuale parlare, testimoniare, raccontare.
Come ci rimane lei che ha vissuto sulla sua pelle gli orrori della Shoah quando sente definire come “gite scolastiche” le visite ad Auschwitz?
Ci rimango male. Come potrebbe essere altrimenti? Non si tratta di una semplice gita scolastica per divertirsi. Credo che la cosa più importante sia che i ragazzi ci vadano comunque: qualcuno capirà, qualcosa resterà. Anche se non si può davvero immaginare ciò che è accaduto e ciò che è stato, qualcosa rimane. Anche perché di Auschwitz è rimasto ben poco rispetto a ciò che era.
Ma, secondo lei, i giovani oggi sono disponibili a farsi far entrare questo messaggio di dolore che voi raccontate? Lei ha trovato sempre un’accoglienza da parte dei ragazzi?
Assolutamente sì. Mi hanno sempre ascoltata in silenzio. Ascoltavano con gli occhi. Raccontare è fondamentale. Lo testimoniano le centinaia di lettere che ricevo dai giovani. Ho persino pubblicato un libro con le loro lettere (“I frutti della memoria”, n.d.r.): è importante parlare, proprio per proteggerli, per cercare di renderli migliori, nel piccolo che possiamo fare, in ciò che riesce a toccarli davvero. Sono sempre stata ascoltata con grande attenzione. E bisogna continuare a raccontare, perché quelle lettere continuano ad arrivare. Ne ho ancora tantissime.
A proposito di un mondo che non migliora, lei ha visto il ritorno di questi ragazzi che sono stati due anni ostaggio di Hamas. Li ha visti? Cosa ha provato? Che cosa le ha fatto ricordare?
Mi fanno un male indicibile, proprio indicibile. Hanno detto di aver vissuto due anni terribili nell’orrore. È terribile, è terribile. Uno diventa matto. Davvero, non so come si fa a sopportare per così tanto tempo condizioni simili. La fame, l’insulto, l’isolamento. Ma soprattutto il fatto di non sapere se sopravvivranno, se potranno un giorno tornare a casa. No. Deve essere una cosa terribile essere ostaggi. Essere un prigioniero come ero io nei lager nazisti è una cosa diversa, perché eravamo centinaia. Ma essere chiusi in un luogo da soli è una crudeltà terribile.
Anche lei ha vissuto questa crudeltà e l’ha vissuta durante la Shoah. Come è riuscita a sanare questa ferita?
Eppure, la testimonianza che porto avanti da oltre sessant’anni, mi aiuta moltissimo. Parlare con i giovani mi dà forza. E loro ascoltano, recepiscono. Mi scrivono, mi mandano centinaia di lettere. Anche per me, testimoniare è un sollievo, pur nel dolore: è il modo in cui riesco a liberarmi, almeno in parte, di quel peso interiore. Capisci cosa intendo? Per questo è importante continuare a parlare, andare avanti, anche se a volte è molto, molto penoso. Spesso i ragazzi piangono con me. E quando piangono, capisco che hanno ascoltato davvero. Se c’è anche solo una possibilità di migliorare questo mondo, che sembra irrecuperabile, bisogna provarci. Papa Francesco mi ha detto: “Edith, sei una goccia di bene in questo mare nero”. E io gli ho risposto: “Santo Padre, io ho già fatto una pozzanghera”.
Da sopravvissuta della Shoah, cosa si sentirebbe da dire a questi ragazzi che sono stati liberati? Ha un messaggio che vorrebbe mandare?
La speranza non muore mai. Vorrei dire ai giovani di coltivarla, sempre, e di non lasciarsi indurire da ciò che hanno vissuto o conosciuto. Non bisogna trattenere il rancore, né covare odio verso nessuno: l’odio è un veleno che corrode chi lo porta dentro. È importante non peggiorare i nostri sentimenti verso gli altri esseri umani, anche verso quelli che hanno fatto il peggio. Perché l’odio fa male, prima di tutto, a noi stessi.