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Mappe | Mappe 11 – La città del futuro – dicembre 2022

lunedì 19 Dicembre 2022

Consumare la città ma senza abitarla. La sperimentazione di Seoul

Redazione
Redazione

L’immaginario futuristico della smart city spesso prefigura scenari utopici in cui l’efficienza perfetta creerebbe un paradiso in terra, oppure una realtà distopica che farebbe dei cittadini utenti passivi. Etnografie delle smart cities. Abitare, relazionarsi e protestare nelle città intelligenti italiane, raccolta di saggi curata dagli antropologi urbani Lorenzo D’Orsi e Luca Rimoldi, va oltre queste letture astratte e adotta un approccio dal punto di vista delle pratiche, degli immaginari e soprattutto degli esiti imprevisti delle politiche urbane nelle città intelligenti. Viene da chiedersi che fine facciano le persone, le loro relazioni e il rapporto con gli spazi che abitano.

Lorenzo D’Orsi, il dibattito su pregi e difetti della smart city è ampio, eppure dal vostro punto di vista “limitato”. Perché?

«Un conto è ciò che prevede il modello della smart city, di cui possiamo fare un’analisi trionfalistica o critica, un conto è come sono implementate queste politiche intelligenti, smart. L’approccio trionfalista è ingenuo, perché considera lo spazio urbano come omogeneo. Adotta anche un atteggiamento fideistico verso la tecnologia: come se essa da sola potesse risolvere le questioni. I critici di questo modello sottolineano invece che la smart city promette inclusione e creatività ma si fa sempre promotrice di iniziative businessoriented (orientate alle attività commerciali, ndr) che producono privatizzazione degli spazi urbani, riduzione dei cittadini a utenti passivi o de-politicizzazione dei conflitti. Queste sono critiche molto valide, eppure rischiano anch’esse di rimanere incagliate al momento della progettazione. L’antropologia urbana e gli studi sulla smart city, invece, lavorano per sviluppare un approccio dal basso, che si concentra sul piano di pratiche imprevedibili e indisciplinate dell’abitare. Esse portano a vivere la città in maniera diversa da come è stata progettata dagli urbanisti, dagli architetti e dagli amministratori».

Spesso, però, si parla di una tendenza a consumare la smart city piuttosto che abitarla…

«Per quanto riguarda il consumo ci sono diverse interpretazioni, c’è chi riflette sulla società dei consumi con un approccio critico, che deriva dalla Scuola da Francoforte, e chi si rifà ai Cultural Studies inglesi, i quali non vedono il piano della fruizione e del consumo come passivo. L’acquisto e il consumare si rivelano grandi spazi in cui si costruiscono le identità delle persone, sia dei singoli che delle sottoculture. Credo che questo valga anche per quanto riguarda come si consuma la città: gli utenti consumatori non sono mai passivi. Inoltre la smart city richiama un vecchio dibattito attorno alla globalizzazione, che verte sulla dicotomia tra la fazione degli omologanti e quella degli ibridanti. Secondo il sociologo George Ritzer ovunque si produce una dimensione standard del consumo della città e di una “non cultura”. Avviene una globalizzazione del nulla, cioè di forme sociali controllate centralmente, che sono prive di contenuti distintivi e peculiari. Dall’altra parte c’è chi sostiene che la globalizzazione spinga a rivitalizzare vecchie differenze o a crearne di nuove. L’interesse di ricerca si sposta sul modo in cui queste tendenze globali interagiscono con i contesti locali, li modificano ma a loro volte ne sono modificate. Per localizzarsi si indigenizzano attraverso il senso locale con cui si creano, quindi portano a nuovi significati. L’antropologia urbana contemporanea lavora in questa seconda ottica. Non vengono nemmeno eliminate le pratiche di resistenza, il tema è quello degli utilizzi imprevisti delle tecnologie smart. C’è una sorta di ambiguità tra l’incorporazione del paradigma smart in maniera quasi inconsapevole e dall’altra parte la persistente capacità di sviluppare delle logiche di contestazione».

Esistono realtà nello scenario globale in cui i luoghi vengono smaterializzati, Seoul sta creando una sua versione nel metaverso. Il senso della località può reggere anche quando le relazioni arrivano ad appartenere a universi virtuali?

«Io penso di sì, la smart city è l’integrazione delle Information and Communication Technologies (tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ndr) nello spazio urbano. Ciò produce da una parte l’applicazione di queste tecnologie e della realtà aumentata alle città, e dall’altra parte la smaterializzazione degli spazi abitativi. Però tutto questo secondo me non porta a una scomparsa della dimensione della località, anche quando sembra che smaterializzi gli spazi. Nel nostro testo c’è un saggio di Fulvio Cozza sull’utilizzo delle app di incontri, che può sembrare quanto di più alienante e smaterializzante. Invece lui mostra come queste si intrecciano in maniera stretta con l’uso della città. Nel tentativo di creare delle relazioni intime ma distaccate si riflette la scelta dei luoghi da frequentare, che devono essere asettici e liberi dai legami con la vita quotidiana ma al tempo stesso simbolici. Quindi si scelgono, per esempio, luoghi di una romanità stereotipata, che permette di posizionarsi in certi immaginari che sono locali, caratteristici».

Il metaverso come salvezza dell’esistenza

A metà strada tra le Hawaii e l’Australia, Tuvalu è un’isola del Pacifico meridionale abitata da 11.925 persone. L’esistenza della piccola Nazione è minacciata dall’innalzamento del livello dei mari. Il ministro degli Esteri Simon Kofeha proposto una soluzione radicale: trasferire Tuvalu dalla realtà al metaverso: «La nostra terra, il nostro oceano, la nostra cultura sono i beni più preziosi del nostro popolo e per tenerli al sicuro da ogni pericolo, qualunque cosa accada nel mondo fisico, li trasferiremo nel cloud».

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