Palleggia un’analisi disincantata. Alza un nuovo paradigma. E schiaccia lo sport dentro la Costituzione repubblicana.
Mauro Berruto, 52 anni di cui quasi la metà come tecnico del volley (due argenti agli Europei e il bronzo a Londra 2012), poi anche direttore tecnico della Nazionale di tiro con l’arco. Ha ricoperto il ruolo di amministratore delegato della Scuola Holden e da sette mesi fa parte della segreteria nazionale del Pd chiamato da Enrico Letta a preoccuparsi dello sport italiano.
«Certamente, c’è un modello anglosassone di sport (in particolare negli Usa) che però è un po’ meno applicabile da noi. Personalmente, ho avuto la fortuna di conoscere per tre anni il modello scandinavo. Al di là dei tratti comuni, come effetto visibile c’è la capacità di trasformare la cultura del movimento in pratica diffusa. E di conseguenza arriva la produzione di campioni».
Lo sport a tutto tondo, quindi?
«Impatta su uno spettro ampio: costi sociali, qualità della vita, ambiente, mobilità, salute con risparmi per il servizio sanitario. Ecco perché bisogna pensare allo sport in termini diversi».
Proprio adesso che s’inanellano trionfi clamorosi e, a volte, inattesi?
«Verissimo. E siamo strafelici. Ma l’impatto di 18 mesi di pandemia non si “pesano” con i risultati di Tokyo e di un’estate eccezionale. I protagonisti sono atleti già formati, che comunque si sono potuti allenare. E anche ai Giochi di Parigi pagheremo poco gli effetti del Covid-19. Li vedremo fra dieci anni, quando ci saranno i ragazzi di 12-14 anni di oggi».
Qual è il gioco da mettere in campo?
«Credo ci sia da evitare l’errore di non vedere la realtà. Paradossalmente, proprio nell’anno in cui i vertici hanno collezionato i risultati più incredibili, abbiamo vissuto il momento più difficile per lo sport di base nella storia della Repubblica. È arrivato il momento di pensare e dar corpo a un nuovo modello. Senza copiare, creandone uno proprio».
Da dove si comincia? Cosa dovrebbe cambiare?
«Dallo sport in Costituzione, molto semplicemente. Non si tratta di una battaglia metaforica. Così automaticamente si genera un diritto. E il diritto costituzionale allo sport implica necessariamente politiche pubbliche che lo tutelino. Tanto più che un simile diritto fondamentale dovrà dialogare con quelli all’istruzione e alla salute. Un cambio di paradigma tutt’altro che simbolico, perché se ci riusciamo finalmente cambia un trend durato la bellezza di 75 anni. In Italia, lo sport è fondato sulla delega dello Stato ad altri soggetti. Le società sportive che spesso si reggono sulla passione e sul volontariato. Il denaro dei privati non solo in termini di sponsor, se magari investono negli impianti. Le famiglie che decidono di supportare i figli nell’attività sportiva».
Insomma, una vera e propria “rivoluzione” che coincide con la prospettiva del postpandemia?
«Le biografie che stanno dietro le 109 medaglie olimpiche e paralimpiche di Tokyo sono al 98 per cento quelle di atleti che si sono avvicinati alle discipline sportive perché le loro famiglie pagavano le quote d’iscrizione, garantivano gli spostamenti, sostenevano i figli. Bene, il Covid ha prodotto fra l’altro conseguenze anche sul fronte delle abitudini consolidate nel mondo dello sport. Ne cito due, fondamentali. Primo: è molto più complicato oggi raccogliere soldi dai “mecenati”, che intervengono a ogni livello sui bilanci delle società sportive. Secondo: i recenti dati dell’Istat segnalano che diminuisce la capacità di spesa delle famiglie italiane. Ahimè, se si taglia lo si fa con il superfluo e nella narrazione vigente lo sport non è considerato essenziale».
Nel frattempo, la politica duella perfino sullo sport…
«Non mi pare il momento. Se mai, occorre semplificare al massimo. Giusto per capirci bene, il presidente di una Federazione che magari incorpora pure l’attività paralimpica oggi si ritrova senza soldi, con gli impianti chiusi, un terzo di tesserati e le società in crisi. Si alza ogni mattina e deve per forza fare i conti con sei interlocutori differenti: presidente del Coni, presidente e direttore di Sport e salute, la sottosegretaria Valentina Vezzali, il capo dipartimento dello sport di palazzo Chigi e il presidente del Comitato paralimpico. Ecco, non può funzionare così. Soprattutto quando bisogna fronteggiare la pandemia. Tradotto: è decisivo mantenere in vita le società sportive, immettere risorse nel circuito economico dello sport, sostenere le famiglie».