È davvero necessario? Ce lo domandiamo osservando la città quando decidiamo di mettere in “pausa” le nostre routine forsennate e affannate. Volgendo lo sguardo a sinistra e destra, come si è evoluta la silhouette dei nostri quartieri, delle nostre passeggiate, dei luoghi in cui andiamo a lavorare o passare del tempo libero?
Non saranno due, ma forse tre o quattro anni, prima di ritornare a un mondo pre-Covid eppure la pandemia ha già modificato le abitudini degli esseri umani: durante i mesi di lockdown la flebile luce di quotidianità e “vicinanza” era data dalla botteghe di prossimità, un modello che offre relazioni, socialità, cura del proprio isolato. Si dice, infatti, che un’insegna accesa di un negozio attivo sia meglio di una telecamera per scongiurare tutto quello che viene etichettato come degrado e non decoroso. E allora, sulla scia di Mappe #2 nela quale abbiamo fotografato dall’alto l’espansione del cemento in Veneto, ci domandiamo: è davvero necessario questo proliferare di supermercati? Lo dicono i numeri: nel nostro territorio, al 31 dicembre 2019 (dati ministeriali dell’Osservatorio nazionale del commercio), sono presenti 1.144 supermercati per una media di uno ogni 4.300 abitanti circa, ben al di sotto della media nazionale di una catena di distribuzione ogni 5.500 cittadini. Non servissero i numeri, basterebbe alzare gli occhi e percorrere una qualsiasi arteria principale per notare una successione anche invasiva di strutture con loghi e marchi differenti, con offerte strillate da cartelloni pubblicitari e che orientano il carrello della spesa ora a sinistra ora a destra.
Una concorrenza avvallata, per altro, dalla direttiva europea 123 del 2006, la cosiddetta “Bolkenstein”, che permettete di edificare su superfici inferiori ai 1.500 metri quadrati senza necessità di autorizzazione da parte dei Comuni che non possono far altro se non alzare le mani. Oppure no?
Gli agglomerati urbani del presente, siano loro megalopoli o piccoli centri, assomigliano sempre più alle città futuriste disegnate dall’artista e fotografo Paul Citroen. Nella serie di collage “Metropolis” lo spettatore osservava una caotica espansione di palazzi, cemento, cantieri, insegne. Un affastellamento non governato da logiche e criteri cuciti sulla necessità della persona. Un senso di oppressione che come panacea richiede una boccata d’aria. La pandemia ha ridisegnato le esigenze già nel presente: nel report fornito da Tecnocasa sulle domande d’acquisto dei veneti registrate nel 2021, nei capoluoghi prevalgono i quadrilocali e i trilocali; a Treviso le compravendite di soluzioni indipendenti e semindipendenti superano le altre offerte con il 33,3 per cento sul totale.
Ecco che l’emergenza sanitaria ha spinto all’acquisto di tipologie più ampie e dotate di spazi esterni, magari “rifugiandosi” in aree più periferiche dov’è possibile vivere non in condomini e con un appezzamento di giardino a un prezzo base di vendita inferiore alle stime delle zone di centro. Questa tendenza sommata agli indici demografici (da anni in un vortice negativo e sempre più preoccupante, ci dicono che dal 2014 al 2020 l’Italia ha perso 1,08 milioni di abitanti) sono segnali su cui sindaci, giunte comunali e grandi leader del mattone non possono più sorvolare per progettare la fisionomia della città di un domani già troppo vicino al presente. Eppure si costruisce ancora, cantieri che si aggrappano al cielo e vanno su, abitazioni su abitazioni in un polverone di distorsioni. È necessario costruire ancora seguendo il flusso di mercato che non può prevedere cosa succederà nel 2022? È necessario sacrificare vite di lavoratori per assecondare la voracità di lobby del cemento? L’Inail al settembre scorso, ha ricevuto da varie parti d’Italia 21.346 denunce di infortunio nel comparto dell’edilizia. Sono aumentate del 16 per cento nell’arco di un anno e fra betoniere e ponteggi sono morti 87 lavoratori. E dove c’è profitto e si fiuta un guadagno, i tentacoli loschi della criminalità irrompono e arpionano tutto quello che c’è da “contaminare”: in Veneto i procedimenti giudiziari hanno certificato che oltre 400 imprese, operanti nel settore edilizio, hanno almeno un collegamento con organizzazioni criminali mafiose.
Dobbiamo ripensare al “diritto alla città” teorizzato dal sociologo e urbanista Henri Lefebvre. Rivendicare i bisogni essenziali, una sanità a portata di mano, un accesso democratico alle risorse urbane e la possibilità di sperimentare una vita civica alternativa all’industrializzazione. Recuperando gli edifici dismessi e appianando le disuguaglianze. Dell’abitare e sociali.