StorieLa storia della Cassa rurale di Sant’Elena, che compie 120 anni, è iniziata in canonica. Ora è Banca Patavina, ma resta forte il legame con il territorio
Spiegare cosa sia una banca è molto più facile che capirne il valore che rappresenta per la comunità in cui opera. In fin dei conti potrebbe sembrare solo un’azienda come tante, che guadagna più o meno bene in ragione della bravura dei suoi operatori. Ma dietro alle semplici operazioni di cassa, sempre più affidate a un computer, si nasconde un ruolo sistemico imprescindibile.
Chissà se don Giovanni Battista Tovena, ultrasettantenne parroco di Sant’Elena d’Este, si sarebbe mai immaginato che 120 anni dopo si sarebbe ancora parlato della sua banca, tenuta a battesimo nella canonica del paese. Ciò che è certo è che il presbitero aveva visto lungo: per sviluppare il territorio della Bassa serviva uno strumento nuovo, indipendente e moderno, capace di erogare credito ai bisognosi attraverso il risparmio dei pochi benestanti.
Alla Bassa Padovana, per riscattarsi, serviva una banca e un piccolo gruppo di parrocchiani, il 5 febbraio 1899, ci mise i capitali e la buona volontà, compiendo il primo passo di un lungo cammino che per molti decenni vide i successori di don Tovena dividersi fra i doveri dell’altare e le incombenze della gestione della cooperativa.
Una storia come tante ce n’erano in quegli anni, si dirà, che prendevano il nome di casse rurali, popolari o semplici casse peota ma che avevano in comune la capacità di ispirare la fiducia sotto forma di risparmi e distribuire speranza a tasso agevolato, liberando il mercato dagli usurai. «La cosa importante – commenta Paolo Galante, bancario in pensione e memoria storica del paese – è che nello statuto originale era prevista una solidarietà forte: i soci si impegnavano a rispondere con i loro averi in parti uguali e solidarmente. Erano disposti a mettere a rischio il loro patrimonio personale e familiare per sostenere questa iniziativa».
I soci della cooperativa erano come una confraternita o una scuola di tradizione veneziana, con la loro bandiera da portare in processione e con un’ora di adorazione riservata durante le quarant’ore. L’adorazione era anche l’occasione per il censimento dei soci in ragione della loro presenza alle funzioni liturgiche: la partecipazione era persino registrata negli ordinati registri parrocchiali tenuti dal prevosto.
«Sant’Elena – ricorda Francesco Franchin, storico dipendente della banca – era in una posizione privilegiata, al centro fra Solesino ed Este con i loro mercati. Capitava che i correntisti si stancassero di aspettare allo sportello e lasciassero in custodia al commesso un pacchetto con gli incassi della giornata. Non sempre, però, la registrazione del versamento era immediata e allora si andava… a naso! Se il pacchetto odorava di pesce era l’incasso del pescivendolo, se di gasolio era il benzinaio e a volte capitava profumasse di ragù, chiaro segno che si trattava della cassa della trattoria. In tanti anni non si è mai sbagliato».
I Sessanta e Settanta furono gli anni d’oro della banca di Sant’Elena, al punto che la Banca d’Italia affidò all’istituto della Bassa il compito di assorbire e salvare le casse di Selvazzano e Legnaro. Anche la sede, dopo i lunghi anni in affitto, si spostò in uno stabile di proprietà e più moderno nel centro del paese. «La banca – commenta il sindaco di Sant’Elena, Emanuele Barbetta – è stata fondamentale per la vita del paese: dopo 120 anni dobbiamo guardare avanti, ma non possiamo dimenticarci da dove veniamo, gli ideali mutualistici e cooperativi con cui la banca è stata costituita e che sono il sale di questa storia».
Una storia, quella della Banca di Sant’Elena, che segna un giro di boa con la nascita di Banca Patavina, nella quale confluisce anche la Bcc di Piove di Sacco: «La cosa più difficile – chiosa il sindaco – è stata veder togliere dall’istituto l’insegna Sant’Elena, che per decenni è stata motivo d’orgoglio per tutto il paese, per far posto a Patavina. Non è stato semplice far confluire due aziende in una ma dobbiamo guardare in prospettiva e auspicare che questa scelta possa portare dei vantaggi per chi nella banca lavora ma soprattutto per la comunità. L’auspicio per il futuro è di poter ritrovare la nostra banca all’interno di una realtà più grande, capace di stare sul mercato».
La banca ha cambiato nome, la sede si è spostata a Piove di Sacco, ma il legame con la realtà di Sant’Elena è rimasto forte: la tradizione di finanziare le opere benefiche e le realtà del paese è continuata senza interruzioni, nonostante la lunga stagione di consolidamento del sistema creditizio e le attuali politiche di bassa redditività del capitale. Un rapporto che la banca ha deciso di rinvigorire in occasione del suo 120° anniversario, celebrato nel cuore di Sant’Elena, a pochi passi da quella sacrestia da dove tutto è cominciato.
La prima cassa rurale aprì i battenti a Loreggia, nel 1883. Fra i personaggi illustri del credito cooperativo locale spiccano l’economista Leone Wollemborg, padovano e ministro della finanza agli albori del Novecento, e il veneziano Luigi Luzzati, professore di diritto costituzionale all’Università di Padova e fondatore della Banca Popolare di Milano oltre che futuro presidente del Consiglio dei ministri.
Solido è il legame fra Banca Patavina e il mondo del sociale: «Vediamo e percepiamo — ricordava il presidente, Leonardo Toson, durante le manifestazioni per il 120° anniversario della cassa rurale di Sant’Elena — il fermento che ispira e tiene vive decine di iniziative. Per il credito cooperativo è naturale il sostegno al mondo del volontariato, perché ci crediamo, perché ne condividiamo i progetti».
Banca Patavina, con 327 collaboratori e 37 sportelli in grado di servire un bacino di quasi 80 comuni, è oggi una realtà centrale nel panorama veneto. Conta 54 mila soci e più di 9 mila soci cooperatori. Numeri importanti che ispirano fiducia e portano a una raccolta superiore ai 2,1 miliardi di euro a fronte di impieghi per 1,1 miliardi, di cui oltre 9 milioni destinati a finanziare istituzioni senza scopo di lucro.
«Partire dai bisogni della gente è stata una prerogativa delle nostre casse rurali — continua il presidente Toson — e ancora oggi la cooperativa è patrimonio di un territorio, una forma di salvaguardia a livello locale di una realtà economica e finanziaria di proprietà della comunità, alla quale si distribuisce valore. La globalizzazione ci sta portando a riscoprire valori che stavamo dimenticando, favorisce il ritorno di una certa sensibilità, l’esigenza di identità e di territorialità. Lo stesso volontariato è espressione della voglia di stare insieme e di lavorare per il bene della comunità».
La misura più significativa di questo lavoro è data dagli interventi finanziati sotto forma di donazioni attraverso gli utili della banca: nel 2018, quasi 500 iniziative hanno ricevuto contributi per oltre 400 mila euro con un aumento dell’1,9 per cento rispetto all’anno precedente.
La maggior parte delle risorse, oltre 108 mila euro, sono state devolute a enti pubblici, religiosi e altre istituzioni locali. Più di 34 mila euro hanno contribuito a finanziare progetti per la scuola e l’istruzione.
Oltre alle donazioni, un occhio di riguardo l’istituto lo riserva ai collaboratori attraverso un ampio piano di welfare aziendale: oltre 660 mila euro vengono destinati annualmente alle pensioni complementari, 62 mila euro sono spesi per i check up medici e 27 mila euro di finanziamento al cral aziendale.
Padova capitale europea del volontariato rappresenta una sfida e un orgoglio per tutta la città, un’occasione importante anche per fare il punto sul terzo settore a livello nazionale.
«Quando vi fu il terremoto in Irpinia — ricorda Emanuele Alecci, presidente del Centro servizi per il volontariato di Padova — partii insieme a molti altri giovani volontari e vi rimasi per un anno intero. Il volontariato fa parte della nostra storia e non è un caso che Padova diventi Capitale europea del volontariato. Anche molti siti culturali della nostra città sono aperti e accessibili al pubblico grazie al volontariato. Nella nostra provincia, e nemmeno questo è un caso, abbiamo il più alto numero di sottoscrizioni esplicite per il 5 per mille. Padova capitale del volontariato è non solo un primato per l’Italia intera, mai ottenuto prima, ma soprattutto l’occasione per costruire percorsi interessanti, per mettere la comunità al centro del nostro ragionamento».
Fra i fondatori della cassa rurale di Sant’Elena si annoverano due sacerdoti, mons. Giovan Battista Tovena e il cappellano don Pietro de Rizzo. Ma non sono un caso isolato. A Gambarare di Mira è don Luigi Cerutti, nel 1890, a fondare una cassa rurale, la prima ad avere una chiara vocazione confessionale dei soci.
La tradizione degli istituti di credito cattolici, però, discende fin dai monti di pietà e frumentari. Particolarmente diffusi fra Quattro e Cinquecento, i monti frumentari – come quello fondato a Macerata nel 1492 da fra’ Andrea da Faenza – si basavano sulle roadie: giornate di lavoro gratuito nei campi, il cui raccolto andava devoluto a chi non ne avesse a sufficienza. Le eccedenze, invece, venivano vendute e il ricavato depositato nei monti pecuniari: istituti di credito rurale destinati a finanziare gli agricoltori che avessero bisogno di prestiti.
