“Fili di pace” tra le dune: così le donne beduine ricuciono il futuro con ago, filo e coraggio
Nel villaggio beduino di Jahalin, in Cisgiordania, le suore comboniane guidano il progetto “Fili di pace”: formazione al ricamo, al cucito e alla produzione di sapone per oltre cento donne di dieci villaggi. Un’iniziativa che garantisce dignità e futuro a famiglie ai margini, preservando al tempo stesso il ricamo palestinese, patrimonio dell’umanità. Tra povertà, isolamento e speranza, le comboniane costruiscono legami e comunità in un deserto segnato da confini e incertezze
Bisogna attraversare il deserto per raggiungere il villaggio di Jahalin, in Cisgiordania. Anzi, l’“accampamento”, fatto di casupole in mattoni, terra e lamiere, è nel deserto: collocato tra la terra dei palestinesi e quella occupata dai coloni israeliani. Qui è in atto il progetto “Fili di pace”, curato dalle suore comboniane. “Fili” perché si insegna alle giovani donne beduine il ricamo e il cucito, oltre alla produzione di sapone. Un modo come un altro per sopravvivere, dove il lavoro non c’è. “In un contesto segnato da spostamenti e incertezze, il progetto offre dignità e speranza, fornendo a più di cento donne in dieci villaggi formazione e risorse per mantenere se stesse e le loro famiglie”, si sentono dire i vescovi lombardi, che in questi giorni sono in pellegrinaggio in Terra Santa. L’obiettivo del progetto è anche preservare il ricamo palestinese, riconosciuto come patrimonio dell’umanità. “Fili di pace non è solo un’attività di reddito, ma una vera ancora di vita che rafforza la comunità e mantiene viva la speranza”.
“E poi dove andremo?”. I beduini vivono ai margini della società. Per questa ragione suor Lourdes Garcia e suor Cecilia Sierra si sono adoperate, assieme ad altre cinque consorelle, per realizzare alcune scuole materne per bambine e bambini dai 3 ai 5 anni. Il capovillaggio, Jihan Frenhat, ci dà il benvenuto; poi le suore introducono il folto gruppo italiano alla vita di questi villaggi e degli stessi beduini. Quindi prende la parola Ahmad Frehnat, una delle tre maestre. L’orgoglio di questa piccola comunità è legato al fatto che le tre maestre, figlie di queste famiglie, hanno potuto laurearsi e dunque mettersi al servizio dell’istruzione di questi ragazzini: “Qui imparano a leggere e scrivere, le nostre tradizioni, i nostri valori, la storia di questo Paese. Così, a sei anni, potranno frequentare la scuola. Anche se, per chi vive qui, è difficile partecipare alla vita sociale: siamo isolati, poi ci sono i controlli, il muro…”. Nel racconto si intravedono parecchi “non detti”, ma qualcuno si intuisce: qui si teme che l’espansione dei coloni israeliani e la realizzazione di altri insediamenti e strade porti via anche questa poca terra abitata ai beduini. “E poi? Dove andremo?”, sussurra un’altra maestra.
Parlare e cantare insieme. L’accoglienza riservata agli ospiti è calorosa. Si chiacchiera, si bevono caffè e tè. Il tempo non scorre alla velocità dell’orologio: le occasioni di incontro, per ascoltare soprattutto, diventano provvidenziali. Qualche vescovo, assieme agli accompagnatori, accenna a “’O sole mio”, seguito da “O mia bela Madunina”: si canta insieme. La maestra Ahmad aggiunge: “È difficile essere beduini, vivere nel deserto, senza diritti, con pochi servizi. Ancora di più lo è per le donne”. Suor Lourdes osserva: “Sono stati gli stessi beduini a chiederci di realizzare una scuola per i loro figli. Ora abbiamo cinque asili”. Una piccola capanna di legni e lamiere costituisce la scuola. Qualche banchetto, una lavagna, pochi quaderni. Tantissimi sorrisi e saluti, in arabo. Infine, ci accompagnano con un italianissimo “ciao”. E si riparte per la basilica della Natività.