Sollecitate in più di una circostanza dalla Corte costituzionale e dall’azione individuale di alcune Regioni in attesa di un provvedimento parlamentare, seppur a rilento, lo scorso 2 luglio, le Commissioni Giustizia e Sanità del Senato hanno approvato il testo base del disegno di legge sul fine vita, cioè il diritto al suicidio medicalmente assistito, frutto del lavoro di un comitato ristretto della maggioranza. Non senza polemiche e “aggiustamenti”, la proposta, composta da quattro articoli, riafferma il diritto alla vita come fondamentale e introduce una modifica all’articolo 580 del codice penale, che punisce l’aiuto al suicidio. Il nuovo testo prevede un’eccezione: non è punibile chi aiuta a morire una persona maggiorenne, lucida, affetta da una patologia irreversibile, in condizioni di gravi sofferenze e inserita in cure palliative, a patto che la volontà di morire sia libera e consapevole. Quasi 150 gli emendamenti e le previsioni di rivedersi dopo l’estate per riprendere l’iter.
«C’è una premessa fondamentale da cui partire: come il Parlamento intende gestire la responsabilità che gli deriva dalla sentenza della Corte costituzionale – introduce il padovano don Renzo Pegoraro, da pochi mesi presidente della Pontificia accademia per la vita – La Corte, infatti, ribadisce che l’istigazione, cioè l’incoraggiamento al suicidio, e l’aiuto al suicidio restano reati, con una depenalizzazione possibile solo in presenza di determinate condizioni. È dunque necessario comprendere quale direzione voglia prendere il Parlamento nell’affrontare un tema tanto complesso quanto divisivo. Si tratta di rispondere a queste “aperture” della Corte costituzionale con l’auspicio di evitare il più possibile il ricorso al suicidio assistito. Occorre considerare le due leggi che esistono già e che andrebbero comunque incoraggiate e sostenute, la legge numero 38 del 2010 sul trattamento del dolore e cure palliative, e la legge 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento. Perché dovrebbe esserci una richiesta di suicidio assistito quando si hanno già delle risposte soddisfacenti di cura dei malati, nel rispetto delle loro volontà che possono prevedere la sospensione di ogni trattamento? E quindi può darsi che si arrivi anche a una forma di legge a cui poi nessuno ricorre perché trova già delle risposte soddisfacenti nelle due leggi precedenti. Questo è un discorso che il Parlamento deve affrontare e deve decidere come legiferare a tal proposito».
Secondo quella che poi è stata anche l’evoluzione delle varie bozze pare che venga ribadita la centralità delle cure palliative: l’articolo 3 del testo rimarca questo aspetto, stabilendone un potenziamento, quasi obbligatorietà, e che le Regioni inadempienti su questo punto possano essere commissariate.
«Bisogna essere molto attenti a come interpretare tutto ciò, perché da un punto di vista clinico e di organizzazione sanitaria già adesso, prima di accedere a un secondo livello o altre forme di assistenza, occorre provare l’efficacia dei risultati con una prima linea di trattamento. Per cui sarebbe coerente innanzitutto offrire sempre le cure palliative e verificare che rispondano adeguatamente ai bisogni del paziente. Perché se il dolore viene trattato adeguatamente, difficilmente potrà diventare insostenibile per il paziente. È quindi necessario, prima di parlare della richiesta di suicidio assistito, che il paziente sia inserito in un programma di cure palliative e valutarne l’efficacia».
Il quarto articolo introduce il Comitato nazionale di valutazione, che ha il compito di valutare tutte le condizioni per cui un paziente che ne fa richiesta può accedere al suicidio medicalmente assistito. È composto da sette membri, nominati dal presidente del Consiglio, ognuno con un ruolo differente (un giurista, un bioeticista, un medico specializzato in anestesia e terapia del dolore, uno in cure palliative, uno psichiatra, uno psicologo e un infermiere). Attorno al comitato si è discusso parecchio, inizialmente era stato chiamato “Comitato etico”, creando ambiguità, le opposizioni sono perplesse sull’imparzialità che dovrebbe avere essendo nominato dal presidente del Consiglio. Soprattutto si rischia di far confusione con il ruolo che dovrebbe essere delle commissioni territoriali.
«Qui c’è un po’ di confusione terminologica, e bisognerebbe fare chiarezza a riguardo, per evitare ambiguità e anche pericoli a vari livelli. Io credo che i comitati etici per la pratica clinica, dove esistono, come ad esempio nella Regione Veneto, debbano rimanere comitati etici che forniscono dei pareri per aiutare a comprendere la situazione clinica del paziente, ma non assumono il compito di autorizzare o valutare la richiesta di suicidio assistito. Cioè i comitati possono essere interpellati dal paziente quando ha dei dubbi o preveda questa ipotesi di richiesta, o anche dai medici di fronte a certe situazioni che pongono l’interrogativo se sia proporzionato o sproporzionato l’approccio terapeutico. Ma deve rimanere un comitato di natura etica che non ha niente a che fare con l’accertamento delle condizioni per la richiesta di suicidio assistito e l’eventuale modalità di realizzazione di questo. Per cui sarebbe bene distinguere tra comitati etici che sono in genere a livello territoriale in seno alle Asl ed eventuali commissioni di natura medico-legale con il compito di constatare la presenza dei requisiti indicati dalla Corte e l’eventuale valutazione della richiesta. Penso che abbiano senso commissioni di carattere regionale per mantenere anche un contatto e vicinanza con il contesto clinico e familiare, con la possibilità di valutare concretamente le condizioni del malato e della sua richiesta. Una commissione nazionale rischierebbe di essere troppo lontana con l’impossibilità di incontrare il malato, di andare a casa sua, di verificare le condizioni reali, anche la capacità di esprimere liberamente e volontariamente la sua richiesta. Non vedo la possibilità reale che una commissione nazionale possa analizzare singoli casi locali».
È di questi giorni la notizia dell’istituzione della Commissione dei cittadini per le cure palliative, un’iniziativa dal basso lanciata proprio dalla Federazione italiana sulle cure palliative. Possiamo dire che negli ultimi anni è cambiata l’attenzione sulle stesse cure? E che potremo arrivare a un livello soddisfacente di attenzione per tutti i malati che ne vorrebbero fare uso?
«Sicuramente dopo la legge 38 del 2010 sono stati fatti passi in avanti. In questi ultimi 15 anni si sono sviluppate molto le cure palliative domiciliari, gli hospice e in generale c’è più attenzione alla realtà del dolore e della sofferenza, perché non parliamo solo di dolore fisico, ma anche psicologico, spirituale, esistenziale. Su questo incide molto anche la formazione del personale sia medico che infermieristico. C’è ancora molto da fare se guardiamo a livello nazionale: ci sono Regioni che hanno lavorato bene in questi anni, altre che hanno incontrato difficoltà, che hanno ancora ritardi. Va riconosciuto lo sviluppo positivo compiuto finora, ma non ci si può fermare: occorre, anzi, rafforzare sempre di più la rete delle cure palliative, per superare l’inganno che contrappone in modo falsato due sole alternative – il dolore insopportabile o il suicidio assistito. No, se c’è un dolore va sempre trattato, va sempre curato adeguatamente, se c’è una sofferenza che è anche di natura psicologica, dicevo, esistenziale e spirituale, va dato un sollievo, una presenza, un accompagnamento, un aiuto, per affrontare il dolore e i disagi, ma anche per affrontare la morte quando la malattia peggiora e avanza. Una cosa è accettare che la morte venga perché ormai è irreversibile, altra cosa è procurarla o anticiparla o favorire l’auto-eliminazione. Non da meno, questi percorsi sono un supporto anche per le famiglie: vanno aiutate, sostenute, confortate da persone competenti, vedi medici, psicologi, infermieri, ma anche dal parroco della propria comunità che garantisce un sostegno spirituale quando si deve affrontare una malattia lunga o pesante o in fase terminale».