StorieGerardo Marchioro moriva cento anni fa, il 22 settembre, cadendo dall’impalcatura della chiesa di Arre. Da lui progettata – come molti altri edifici sacri tra Padova, Vicenza e Verona – ne stava seguendo, con la consueta scrupolosità, l’andamento del cantiere
Qualcuno sospettò perfino che fosse stato spinto giù dall’impalcatura da un rivale che non sapeva darsi ragione che fosse stato preferito nella progettazione quel tagliapietra autodidatta; si pensò perfino a un ancor più improbabile attacco di epilessia, tanto parve incredibile l’incidente che il 22 settembre 1922 costò la vita a Gerardo Marchioro, caduto da un’impalcatura della chiesa di Arre, che aveva progettato e di cui stata seguendo scrupolosamente l’avanzamento dei lavori. Purtroppo gli “incidenti sul lavoro” capitavano anche allora, e questa non è certo l’unica vittima illustre dei cantieri: nel 1908, il 24 settembre, il prete pittore Demetrio Alpago era morto allo stesso modo, a 38 anni, cadendo dall’impalcatura della chiesa di Megliadino San Fidenzio su cui stava lavorando. Marchioro di anni ne aveva 72 (era nato il 25 gennaio 1850), ma era ancora attivissimo, pronto a mettersi con generosità a disposizione delle comunità parrocchiali che volevano intraprendere l’impresa di realizzare una nuova chiesa. Una lunga carriera iniziata già da giovanissimo, se i pochi documenti biografici rimasti, perlopiù conservati dall’omonimo nipote e utilizzati da Franco Barbieri e Gabriella Candia nel volume monografico a lui dedicato, lo colgono nel 1871 a Gambugliano, piccolo comune vicentino, che fa lo scalpellino nei lavori di costruzione della chiesa, diretti dal capomastro Giuseppe Sottoriva su un progetto dichiaratamente neogotico dei Vittorio Barichella; un architetto che alternava l’edilizia all’attività di bibliotecario della Bertoldiana di Vicenza. Sono questi molto probabilmente i primi maestri del nostro Gerardo, pienamente immerso nell’atmosfera artistica dell’eclettismo e del revival imperante tra Otto e Novecento, che interpretata con un tocco personale non privo di originalità. Tra il 1893, quando progetta la sua prima chiesa, a Campiglia, nella zona sud del Vicentino, e il 1922 quando lavora ad Arre e in una cappella privata di Gambellara, ai confini col Veronese, Marchioro è stato coinvolto nella progettazione di una cinquantina di chiese, perlopiù vicentine, ma anche padovane e veronesi. Eppure non è la quantità dei progetti a cui pose mano a rendere significativa questa figura, a un secolo dalla scomparsa, quanto le sue qualità umane e il suo itinerario professionale. Dal punto di vista umano “il bon Marchioro”, come viene spesso citato, mostra i tratti solidi di un artigiano di vecchio stampo: basso di statura, tarchiato, cappello sempre in testa e in tasca… una castagna, tanto da ispirare il soprannome di “ingegner Castagna”. Nel 1877 aveva sposato Elisabetta Rizzi, sorella del parroco di Povolaro, da cui ebbe sei figli: due maschi, entrambi iscritti nel registro dei “tagliapietra” lavoravano insieme al padre, e quattro femmine, una delle quali si fece suora. Professionalmente Marchioro iniziò facendosi notare come «distinto tagliapria, bravo, paziente e del disegno esecutor valente». Gradualmente passò da esecutore a studioso autodidatta di architettura e ornato, poi capomastro fino a ottenere nel 1903 la qualifica di “progettista-costruttore”. Un mestiere esercitato con perizia, scrupolosità e grande diligenza visto che, quando sui suoi progetti fu richiesta l’approvazione di qualche tecnico più titolato, i suoi calcoli riscossero pieni elogi per la perizia dimostrata. Era anche sensibile alle necessità delle comunità parrocchiali che si accingevano, spesso con poche risorse a disposizione, alla grande impresa di realizzare un nuovo edificio sacro per rispondere all’incremento della popolazione: teneva conto del contributo “gratuito” dei parrocchiani nel cantiere, per aiutare il compito della fabbriceria alle prese con innumerevoli iniziative di fundraising (pesche di beneficenza, autotassazione, vendita di oggetti sacri, questua); cercava sempre soluzioni esteticamente gradevoli ma che non fossero anche eccessivamente dispendiose. La manodopera veniva reperita sul posto e anche i materiali, per quanto era possibile. Il suo onorario non appariva come prioritario ed era sempre disposto a venire incontro alle difficoltà dei committenti. Anche dal punto di vista liturgico, Marchioro privilegia gli ampi spazi presbiteriali, quasi premonizione delle riforme di culto. Sul versante tecnico brevettò un macchinario per la realizzazione dei soffitti delle chiese, di cui era riconosciuta la sua eccellenza. La sua progettualità fece spazio anche a qualche sporadica innovazione, come l’uso del cemento armato o di putrelle di ferro. Su piano stilistico Marchioro si muove con grande (forse eccessiva?) disinvoltura tra citazioni neogotiche, neopalladiane, bramantesche… genericamente “classicistiche”. La sua opera più riuscita, secondo gli storici dell’arte, è la chiesa di Santa Caterina in villa di San Giovanni Ilarione, tra i colli Lessini, con le sue navate slanciate e ricche di elementi decorativi, completata nell’atmosfera “fogazzariana” dagli affreschi di Pietro Pajetta e dagli stucchi di Egisto Caldana; è stata iniziata nel 1901 e consacrata solenne mentre nel 1909.
Il 22 settembre di un secolo fa moriva tragicamente, cadendo da un’impalcatura della chiesa di Arre, da lui progettata e di cui stava seguendo i lavori, “l’architetto costruttore” di Castelnuovo Vicentino Gerardo Marchioro (a destra, l’unico ritratto rimasto). Un autodidatta che, con umiltà e costanza, era diventato progettista e capomastro di innumerevoli chiese delle Diocesi di Vicenza, Padova e Verona.
Questi gli edifici sacri della Diocesi di Padova su cui intervenne progettualmente in toto o parzialmente Gerardo Marchioro: Agna, Arre, Borgoforte, Carbonara, Lugo di Vicenza, Santo di Thiene, Valbona, e Veggiano. Curioso quest’ultimo caso: dopo la rinuncia di vari ingegneri, nel 1919 un giovane disegnatore copiò la facciata della chiesa veronese di San Giovanni Ilarione, progettata da Marchioro, e su questa base si mise mano all’opera. Nel 1914 lo stesso Marchioro fu chiamato per disegnare l’altar maggiore del tempio, poi eseguito dal figlio Giulio.
