Mosaico
“Ma sei troppo buono con me. Quando Ti chiedo dolore, Tu mi dai pace. Dalla anche a lui. Dagli la mia pace, ne ha più bisogno di me”.
Alcuni romanzi del grande scrittore Graham Greene sono rimasti nell’immaginario collettivo anche grazie alle trasposizioni cinematografiche, come “Il nostro agente all’Avana”, “In viaggio con la zia”, “Il terzo uomo” e molto altro. Ma solo quando (ri)leggiamo “Fine di una storia”, uscito nel 1951, da noi ritradotto ultimamente da Sellerio, riusciamo a comprendere fino in fondo il suo cammino spirituale che lo portò alla conversione al cattolicesimo, e nello stesso tempo ci rendiamo conto di quanto lo scrittore inglese (era nato nel 1904, scomparve nel 1991) riesca a rendere attuale una vicenda di conversione in un tempo, tragicamente attuale, di bombardamenti, rovine, lutti.
Le parole all’inizio sono infatti quelle di una donna sposata che sta pregando per l’amante. Desidera che Dio lo allontani da lei e che gli doni ciò che sembra impossibile per un intellettuale scettico come il suo compagno: la fede. Mai come in questo romanzo, Graham Greene ha parlato di sé, non solo a livello biografico: questa è soprattutto la storia della complessità dell’essere credenti, di quanto imprevedibile sia la conversione, che è, per l’autore inglese, soprattutto lotta con l’angelo, un angelo che ricorda molto quello che impedisce il passo a Giacobbe: la domanda inquietante, antica quanto il mondo, è perché si debba lottare proprio con Colui che ti chiama.
“Fine di una storia” non è solo il racconto di una conversione, ma anche quella di un animo che resiste e che scalcia perché non desidera la “violenza” della fede.
E’ anche un pezzo della storia d’Inghilterra, quella dei bombardamenti del 1944 con le V1 su Londra, delle paure e degli incubi di un’Europa percorsa, e non sarà l’ultima volta, dal delirio. Nulla è facile nel Greene di questo romanzo: la protagonista si reputa bugiarda e infida, perché conosce bene le oscillazioni del proprio animo e di quello altrui e per questo si meraviglia quando si accorge che Dio esaudisce le sue preghiere: l’uomo amato riemerge dalle macerie di un bombardamento, e Sarah ha pregato per questo, offrendo in cambio la promessa di non rivederlo più.
Le parole d’apertura sono quelle del suo diario, che Maurice leggerà dopo la sua morte, capendo di aver sbagliato ad aver paura di lei e delle sue possibili infedeltà. Perché in fondo da questo romanzo ci viene un altro insegnamento: quando inizia la menzogna del tradimento, essa proietta la sua ombra dovunque, replicandosi all’infinito.
C’è un episodio che la dice lunga a proposito: tra i soliti oratori che affollano un parco londinese c’è un razionalista ateo che cerca di convincere la gente che Dio –“colpevole” di avergli donato una mostruosa macchia violacea sul corpo- è solo una costruzione dell’uomo per l’uomo. Sara è attratta e respinta nello stesso tempo da questo messaggio di disperazione e, senza neanche sapere perché, bacia la repellente macchia.
Dopo la morte della donna, l’antico amante incontra l’antico nemico di Dio, che gli racconta di essere guarito da quella ferita grazie a Sara. E per il razionalista Maurice inizia la catena delle infinite e incongruenti giustificazioni: isteria e autosuggestione, trapianto di pelle, applicazioni elettromagnetiche.
La morte dell’amata apre un mare di interpretazioni, che svelano l’imprevedibilità dell’azione divina: Maurice allora, sconfitto nel suo assoluto scetticismo, innalza una laica, disperata, autentica preghiera al dio nascosto che gli ha sottratto l’amata ma che gli ha fatto intravedere la possibilità di una forma diversa di amore. L’accettazione dell’amore nonostante tutto è la ferita che l’angelo ha lasciato dopo la lunga lotta.