«Fateci caso: stare insieme tra maschi implica quasi sempre un’attività: un fare qualcosa. Con gli amici maschi si costruisce e si ripara, si gioca a calcetto, si griglia la carne in cortile, si scala una montagna. Si va a pesca, o in palestra a sollevare pesi, a un party o una partitella. E anche i maschi domestici, da divano, come me, tendono a incontrarsi con altri maschi per fare cose. Tra noi socializzati maschi i legami si stringono d’altronde soprattutto competendo o collaborando in qualche attività, magari pretestuosa, che giustifichi il nostro stare insieme: come se solo farci compagnia e volerci bene fosse sospetto – o comunque non sufficiente. Se ci rivolgiamo gli uni verso gli altri, c’è perciò sempre tra di noi un qualche filtro, un medium, un diaframma, come un pallone da calciare, un progetto da realizzare, o un problema pratico da risolvere. C’è sempre qualcosa di mezzo insomma, c’è sempre qualcosa da fare».
O rincorrere ancora un ultimo bicchiere come Carlobianchi e Doriano, anche facendo strada o facendo mattina, anche prendendo sonno in attesa del verde al semaforo o anche imbucandosi a una festa di laurea o, in extremis, in una villa veneta dal glorioso passato come Villa Roberti a Brugine. Quando ho visto il film Le città di pianura di Francesco Sossai ho subito pensato a queste righe del prof. Alessandro Giammei contenute nel suo saggio Parlare fra maschi (Einaudi, 2025, pp. 185, euro 15,50). Se dell’opera del regista feltrino, classe 1989, si è già scritto tantissimo e in plurime direzioni – per un inquadramento generale consiglio, in tal senso, sul sito Doppiozero.com l’articolo del prof. Denis Lotti dal titolo Way Down East. Le città di pianura – dall’altra forse non si è sottolineato abbastanza quanto la sceneggiatura Sossai-Candiago, potenziata poi dallo sguardo del primo, riesca ad affrescare la quintessenza di molte dinamiche maschili. Certo non esistono categorie stringenti e rigide, senza pretesa di esaustività, ma innegabilmente il film illumina un funzionamento di genere che è stato alla base, e che in tanti casi lo è ancora, del vivere non solo veneto.
Oltre ai paradigmi del consumo di alcool e di suolo Le città di pianura fonda la sua immediatezza, è già un caso-cult oltre il Veneto, sull’anatomia dell’amicizia maschile che riusciamo a riconoscere nella sua verosimiglianza nel legame tra Carlobianchi e Doriano. C’è una rispondenza al vero che si impenna quando Giulio, il giovane colto della facoltà di Architettura, viene approcciato dai due protagonisti nel tentativo di farlo corrispondere a un modello che va per la maggiore, con l’obiettivo di farlo rientrare nei ranghi rinunciando così a un funzionamento fuori dalle regole dei cliché maschili. Giulio di suo tornerebbe a casa, invece siamo invitati a pensare che in questo caso il giovane perderebbe un’occasione di divertimento e di approccio con la ragazza che sta festeggiando la sua laurea. Siamo costretti a pensare che lo studente non sia in grado di esprimersi, che non stia vivendo il presente che, invece, riuscirebbe a possedere proprio grazie a questo «fare» di cui parla Giammei. Un maschio fuori dal «fare» è spacciato, in definitiva, anche in una sceneggiatura. Eppure c’è un momento – per me il più bello! – in cui Carlobianchi si mette vicino a Doriano nel sonno, si sistema in totale aderenza al suo corpo provando a vivere l’affetto che lo lega al suo amico in un modo che implica stare fermi ad ascoltare che rumore fanno due corpi vicini senza un bicchiere di mezzo. Quel filtro-medium-diaframma da cui eravamo partiti…