Fatti
Rispetto a Francia e Germania l’Italia sta godendo di un trattamento favorevole da parte dei mercati finanziari. L’indicatore che documenta questa dinamica è il famigerato spread, vale a dire la differenza che gli investitori sono disposti a pagare per acquistare titoli di debito pubblico di un Paese rispetto a un altro. Sullo spread, non va dimenticato, sono addirittura caduti dei governi e comunque un valore elevato di questa misura implica un maggior costo della spesa per interessi che nel caso dell’Italia, Paese con un debito pubblico proverbialmente elevato, ha toccato in passato livelli molto pesanti. Oggi la situazione è assai diversa. Con la Francia il differenziale è praticamente azzerato e con la Germania, termine di riferimento dello spread per antonomasia, si è fortemente ridotto. I motivi vanno ricercati essenzialmente nell’instabilità politica interna dei due Paesi e nel diverso impatto delle crisi internazionali su economie strutturate in modo molto diverso dalla nostra. Per converso l’Italia viene premiata per la stabilità dell’assetto di governo, assecondata da una gestione tutto sommato accorta e prudente dei conti pubblici, riconosciuta dalla stessa Bce che per bocca della presidente Lagarde ha elogiato gli “sforzi molto seri” compiuti da Roma e ha ipotizzato che il nostro Paese possa uscire anche prima del previsto dalla procedura Ue per eccesso di deficit.
Questo andamento dovrebbe facilitare la messa a punto della prossima legge di bilancio. Attenzione però a non illudersi che si possa galleggiare accontentandosi della “rivincita” sui partner europei un tempo più in auge, magari facendone motivo di propaganda elettorale. Sarebbe pericoloso non solo perché le sorti economiche di quegli Stati sono strettamente connesse con le nostre e da soli non si va da nessuna parte, come ha ricordato ancora una volta il capo dello Stato nel video-intervento per il Forum di Cernobbio. Ma in modo particolare perché il nostro Paese presenta delle debolezze strutturali molto forti e il momento favorevole andrebbe sfruttato per cominciare a porvi rimedio guardando un po’ più in là delle prossime regionali. Non ci sono “tesoretti” su cui fantasticare. È di questi giorni, per esempio, il dato del Dipartimento delle finanze che ridimensiona drasticamente le attese circa l’aumento delle entrate fiscali nel periodo gennaio-luglio 2025. L’aumento rispetto all’anno precedente ci sarà effettivamente, ma solo del 2,6%, raggelando le previsioni che il +7,3% di giugno aveva innescato. Vanno molto male i consumi interni, in special modo quelli di generi alimentari, falcidiati dall’aumento dei prezzi. E qui riemerge un’altra delle debolezze strutturali a cui si accennava: il livello dei salari. L’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse in cui i salari reali medi siano diminuiti: dal 2000 al 2023 sono scesi del 3,5%. Lo si è scritto tante volte, è vero, ma se non si tiene conto di questo dato è difficile capire come mai al boom occupazionale descritto dalle statistiche non corrisponda una produttività adeguata e le situazioni di difficoltà sociale non tendano a diminuire.