Idee
Un passaggio attraverso le presunte logiche d’occidente e non solo. “Il coraggio della pace”, il nuovo libro del fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi (Scholè, 2025, 10 euro, 80 pagine) è la testimonianza diretta di un cercatore di pace che ha avuto un ruolo reale nella fine di alcuni conflitti che laceravano il pianeta e mietevano vittime soprattutto tra donne e bambini. Non solo e non tanto una riflessione storica sui motivi della guerra e le ragioni della pace, ma un invito a penetrare profondamente i rischi della pace.
Perché essere portatori di pace significa andare controcorrente rispetto ad una cultura che nei periodi di conflitto contamina il pensiero con parole d’ordine che parlano di necessità, dovere, coraggio. Soprattutto su quest’ultima parola si sofferma l’autore: il coraggio di chi difende la vita contro la morte, come Gandhi o Martin Luther King viene spacciato per l’opposto: viltà, rifiuto del patriottismo.
In poche parole il coraggio non è più difesa della pace e rifiuto della violenza contro gli inermi fino all’accettazione del sacrificio di sé, ma diviene “pornografia della morte” come aveva intuito Chris Hedge, uno che i conflitti li conosceva bene, essendo stato corrispondente di guerra per molti anni.
La cultura della guerra è non solo sbandieramento clamoroso, ma anche rinascita di una cultura di massa che parla di reazione e coraggio. Come se quel coraggio mancasse agli “inattuali” combattenti per la pace, che proprio come Gandhi e Luther King ebbero il coraggio estremo di sacrificare la loro vita per testimoniare fino in fondo la loro convinzione. E se non è coraggio questo… .
Riccardi riporta infatti le parole del Mahatma che dicono molto sulla vera dimensione del coraggio: “Se qualcuno mi uccidesse e io morissi con la preghiera del mio assassino sulle labbra (…) solo allora si potrebbe dire di me che avrei avuto ‘la non violenza del coraggioso’”.
Un libro che è anche un invito a dare attenzione a quei conflitti, come la guerra in Sudan, in cui vengono massacrate o rapite migliaia di persone anche per la loro fede religiosa, di cui poco si parla e discute e che invece sono testimonianza viva e dolente di un mondo in cui assistiamo a 59 guerre in corso. Guerre nascoste da motivi politici, ideologici, e da una cultura tesa alla parcellizzazione di quella stessa attenzione, perché poi c’è il grande mercato delle offerte, del tempo libero, del consumo, signore delle parti del pianeta che se lo possono permettere.
Assai interessanti anche le pagine in cui si rintracciano alcune radici ideologiche delle ragioni della guerra nell’ambito di un darwinismo guerrafondaio, basato su una presunta necessità celata nella difesa della specie. Anche se è probabile che un contributo piuttosto rilevante alla concezione della necessità del conflitto sia dovuta ad una lettura parziale a limitata di Nietzsche e del suo “superuomo”, che andrebbe interpretato anche come oltre-uomo, con la constatazione del vuoto lasciato dalla rinuncia alla fede. Chissà cosa avrebbe pensato il filosofo tedesco guardando in tv la morte di bambini innocenti, la fame, la violenza.
Tutti conti pagati non da soccombenti in un romantico duello, ma da madri, figli, malati senza cure, colpevoli di vivere a Gaza o in Sudan o in Ucraina o di essere testimoni di una fede diversa da quella dei “coraggiosi” possessori di sofisticate armi, che fanno la ricchezza di pochi.