In questi giorni mi trovo in Giappone per una – non si sa quanto – meritata vacanza. Ma anche qui mi trovo a pensare a quanto la comunicazione sia in grado di cambiare la realtà che ci circonda, di come, insomma, le parole siano un po’ come le mani di Mario Brega in Un sacco bello: piume per curare, ferro per picchiare.
Dopo una vita passata a studiare il Giappone (e il giapponese, grazie alla pazienza delle insegnanti madrelingua de Il Mulino di Legnaro), mi trovo finalmente immerso in un contesto in cui la forma prevale sul contenuto fino a diventare essa stessa il contenuto. Inchini a ogni piè sospinto, lunghissime frasi di circostanza, sorrisi estasiati dei commessi a ogni scontrino, a un livello davvero inedito alle nostre longitudini. E poi la pulizia in ogni angolo, la cura dei dettagli nei giardini e nelle aiuole, l’armonia del “wa”, la serenità esteriore che tende a non ferire e importunare gli altri temprata da un’educazione rigidissima.
Non è tutto oro quel che luccica. Le interazioni sociali – per quanto esteriormente armoniose – sono ridotte al lumicino. Le cassiere sono cortesi, ma se c’è una macchina che può occuparsi di un compito umano quella macchina alla fine prenderà sempre il sopravvento. I giovani – anche qui – non si sposano, spesso si chiudono in una stanza (qui è nato il termine hikikomori). E nonostante tutto questo, sarà lo “shock culturale” di questi giorni, mi trovo a pensare quanto ci sarebbe utile uno stile di comunicazione un po’ più giapponese, capace di decentrare i nostri “Io” resi ancora più egomaniaci dalle gallerie degli specchi dei social per metterci a servizio di un’armonia più ampia.
L’ho notato sabato scorso, durante la messa prefestiva nel centro francescano missionario di Roppongi a Tokyo, celebrata in lingua inglese per i migranti, i turisti e le coppie miste (tante, e con tanti bambini). Una liturgia moderna, con chitarre e flauti, ma dai tempi dilatati per permettere anche ai segni e ai gesti di parlare.