Incontri che cambiano. È quello che ci racconta Andrea Di Stefano nel suo nuovo film “Il Maestro”, nelle sale dal 13 novembre con Vision Distribution. Il romanzo di formazione, sbeccato e lieve, di un giovane tredicenne spinto dalla famiglia a diventare una promessa del tennis; a segnare il suo cammino un maestro fuori dal comune, Raul Gatti, una gloria del tennis in cerca di riscatto. Una riuscita commedia di respiro familiare e sportivo striata di note ironiche e drammatiche. Pierfrancesco Favino regala ancora una volta un’interpretazione che lascia il segno. Spiazzante e sorprendente è poi “Frankenstein” firmato Guillermo del Toro, suggestivo, sfidante e poetico adattamento dell’opera di Mary Shelley. Tra favola nera e thriller dell’anima, che esplora le ambizioni-ossessioni dell’uomo che si spinge oltre i confini della scienza e dell’idea di Dio, è al contempo una potente parabola tra perdono e misericordia. Protagonisti Oscar Isaac e Jacob Elordi. Su Netflix dal 7 novembre 2025.
“Il Maestro è un omaggio ai mentori imperfetti, feriti ma pieni di cuore”. Così Andrea Di Stefano, noto attore e regista – tra i suoi titoli “L’ultima notte di Amore” (2023) – nel raccontare il suo nuovo film “Il Maestro”, presentato fuori concorso all’82ª Mostra del Cinema della Biennale di Venezia (2025). Un film sul rapporto maestro e allievo, ma anche padre e figlio, che si gioca dentro e fuori dal campo da tennis. Un racconto di formazione livido e insieme arioso, il viaggio verso l’adolescenza e l’età adulta di un tredicenne che impara ad ascoltarsi e a trovare la propria voce interiore, sbaragliando aspettative familiari e pressioni sociali. Un viaggio oltre la paura e il pregiudizio alla scoperta della felicità. Interpretato straordinariamente da Pierfrancesco Favino e dal giovane Tiziano Menichelli, nel cast anche Giovanni Ludeno, Dora Romano, Valentina Bellè, Astrid Meloni, Paolo Briguglia ed Edwige Fenech. Prodotto da Indiana, Indigo Film e Vision Distribution, il film è nei cinema dal 13 novembre 2025.
La storia. Estate, fine anni Ottanta. Il tredicenne Felice Milella, allenato tra dedizione e pressione dal padre Pietro, spera di poter fare il salto di qualità come tennista. Per affrontare i tornei nazionali la famiglia investe i propri risparmi per ingaggiare un maestro professionista, l’ex gloria del tennis italiano Raul Gatti. Felice e Raul si mettono così in macchina seguendo un fitto programma di tornei stilato da Pietro. Tappa dopo tappa i due impareranno a conoscersi, superando reticenze e pregiudizi, menzogne e verità, solitudini e insicurezze. Un viaggio vibrante, azzardato e liberatorio…
“È un viaggio attraverso il dolore della crescita – commenta il regista – la potenza dell’insegnamento e la bellezza dei legami umani; una commedia all’italiana per chiunque creda ancora che il mondo possa essere migliore, una lezione alla volta”. Andrea Di Stefano fa centro con un film-romanzo di formazione “imperfetto” e luminoso. Racconta anzitutto il rapporto maestro e allievo nel perimetro dello sport, ma in maniera atipica. Raul Gatti è un tennista che ha perso l’occasione della vita, un tormento che non lo abbandona in età adulta, relegandolo in un’esistenza irrisolta e triste. Quando si trova faccia a faccia con il giovane Felice rilegge il suo passato, tra opportunità ed errori, provando ad aggiustare il proprio percorso di vita. Il ragazzo gli fornirà energie nuove, pulite, spingendolo a fronteggiare i propri demoni e a riconciliarsi con la vita.
Dall’altro lato, Felice è un tredicenne apparentemente sereno, in verità “ostaggio” del sogno di gloria paterno: ama il tennis, ma non sa se vuole dedicarsi esclusivamente a quello; è suo padre Pietro a essere ossessionato dalla vita da campione. Felice si adatta per non deludere il genitore, perché è più facile assecondare i sogni altrui piuttosto che dar voce ai propri. L’incontro però con un maestro sopra le righe, brillante e cialtrone, lo fa uscire dalla sua zona di sicurezza, dai rigidi schemi tracciati dal padre. Felice viene letteralmente buttato in mare aperto, senza protezioni, il mare della vita; e il maestro Raul Gatti è l’unico a insegnargli a nuotare. Un incontro sulle prime traumatico, vertiginoso, ma alla lunga foriero di umanità e dolcezza. Raul insegna a Felice che spesso la vita è difficile, sbeccata e dolorosa, ma è comunque una straordinaria opportunità da abbracciare con fiducia e coraggio.
Andrea Di Stefano compone un film denso e profondo servendosi di lampi di leggerezza e note malinconiche; un romanzo di formazione ruvido, non patinato, ma dai riverberi acuti e in un certo senso educativi. Un film consigliabile, problematico, per dibattiti.
Lo abbiamo visto in anteprima all’82ª Mostra del Cinema della Biennale di Venezia e ora torniamo a parlarne in occasione della sua uscita su Netflix. È “Frankenstein” di Guillermo del Toro, ambizioso e imponente adattamento dell’opera omonima di Mary Shelley (1818), un’opportunità per l’autore di confrontarsi ancora una volta con il terreno del brivido, del thriller horror-gotico, ma percorrendolo in chiave metaforico-parabolica con temi di matrice cattolica, in primis con la dimensione del perdono e della misericordia. Come ha dichiarato il regista: “un’impresa benedetta, mossa dalla reverenza e dall’amore sia per il mistero che per i mostri”. Interpretato da Oscar Isaac, Jacob Elordi, Christoph Waltz e Mia Goth, il film vanta un apparato formale – messa in scena, scenografia, costumi e musiche, quelle inappuntabili di Alexandre Desplat – di grande suggestione e bellezza.
La storia. Artico, Victor Frankenstein viene trovato gravemente ferito da un gruppo di marinai bloccati con la loro nave tra i ghiacci. L’uomo è in fuga da una minacciosa creatura dalla forza sovrumana. Messo in salvo, racconta la sua storia, il suo passato da brillante medico e il suo desiderio di poter controllare la vita umana. Ha plasmato una creatura mostruosa che ora gli dà la caccia…
Il pluripremiato regista de “La forma dell’acqua. The Shape of Water” (2017, Leone d’oro a Venezia e vincitore di quattro Oscar, tra cui miglior film e regia) si misura con un titolo di riferimento negli anni della sua formazione, l’opera di Mary Shelley, che gli permette di raccontare uno degli archetipi di mostro tra letteratura e cinema, e al contempo di accostarsi alla creatura con occhi nuovi, diversi.
Il vero protagonista dell’opera non è infatti lo scienziato ambizioso Victor Frankenstein, che rinnega principi e regole, arrivando a manipolare vita e morte e a sfidare Dio. Al contrario, il centro del racconto è la creatura, il cosiddetto mostro, chiamato alla vita o, meglio, all’immortalità, contro la sua volontà. Una creatura apparentemente minacciosa, in verità bisognosa di umanità e prossimità.
Un’esistenza nata ferita, mutilata, che compie un doloroso e faticoso percorso di accettazione di sé, superando il trauma di essere un corpo frutto di esperimenti ciechi e abbracciando l’idea della dignità della vita nonostante tutto. Un traguardo di consapevolezza reso possibile dal coraggio del perdono, quello che disinnesca il desiderio di vendetta verso il proprio padre-padrone e apre alla pacificazione dell’animo. Servendosi di atmosfere fosche e di un sottotesto poetico, Guillermo del Toro rende ancora una volta le creature mostruose più umane degli esseri umani, meno corrotte, capaci di amare e provare misericordia.
Un film sfidante, acuto, dolente e raffinato, che incanta per la regia, per la bellezza della sua confezione formale, ma anche per i suoi riverberi tematici religiosi. Un film che si apre in cupezza e si chiude su note luminose. Complesso, problematico-poetico, per dibattiti.