Veri custodi della biodiversità: è un titolo di cui si fregiano gli apicoltori, e ne hanno ottime ragioni. Le api sono, infatti, le responsabili dell’impollinazione di quasi il 90 per cento delle piante da fiore selvatiche e del 75 per cento delle colture agrarie. «Senza di loro, verrebbe meno anche buona parte della produzione alimentare», commentava Coldiretti Veneto in occasione della Giornata mondiale delle api, lo scorso 20 maggio. L’agricoltura intensiva, i pesticidi e i cambiamenti climatici, la perdita di habitat e nuove malattie sono però pericolosi nemici, e la protezione delle api è diventata quindi un’urgenza concreta, non solo per la salvaguardia ambientale, ma anche per la sopravvivenza di interi settori produttivi. In Italia, il consumo medio di miele è di circa mezzo chilo a persona all’anno, un dato inferiore alla media europea di 600 grammi e un terzo rispetto alla Germania. Tuttavia, l’Italia è leader in biodiversità, con oltre 60 varietà di miele. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale Miele, in Italia ci sono 1,5 milioni di alveari gestiti da circa 72 mila apicoltori, due terzi dei quali sono hobbisti che producono miele per il consumo personale. In crescita è la presenza di giovani apicoltori, con il numero di aziende apistiche condotte da under-35 aumentato del 17 per cento negli ultimi cinque anni (analisi Coldiretti su dati Unioncamere). Le sempre maggiori difficoltà incontrate negli ultimi anni hanno tuttavia scoraggiato parecchi apicoltori, soprattutto hobbisti, dal proseguire l’attività. Secondo Greenpeace, in Europa abbiamo circa duemila specie di api selvatiche ma circa un terzo delle popolazioni di api e farfalle sono in declino. Per capire l’importanza delle api, basti pensare che in media una singola ape visita anche settemila fiori al giorno; ci vogliono quattro milioni di visite floreali per produrre un chilogrammo di miele. Almeno tre colture alimentari su quattro, secondo la Fao, dipendono per resa e qualità anche dall’impollinazione delle api, tra cui mele, pere, fragole, ciliegie, cocomeri e meloni, vale a dire alcuni dei principali prodotti agricoli del territorio veneto.
Quale, invece, il futuro per il miele nostrano? Secondo il citato Osservatorio nazionale, nel 2024 nella nostra Regione si contavano oltre diecimila apicoltori, il numero più alto d’Italia, per una produzione di circa mille tonnellate di miele, in aumento del 14 per cento rispetto al 2023 e in netta controtendenza rispetto al calo nazionale. Tra i motivi di questo risultato c’è la varietà del territorio, con arnie che spaziano dai colli alle lagune, fino alle valli alpine, e una produzione altrettanto variegata che propone dal miele delle Dolomiti Dop al miele di Barena o del Delta del Po, tutti con caratteristiche organolettiche uniche. «La salvaguardia delle api è una responsabilità collettiva – rilancia Coldiretti Veneto – che oggi si scontra anche con l’invasione di miele straniero, spesso di bassa qualità e a basso costo. Secondo un’analisi sui dati Istat, solo nei primi due mesi dell’anno sarebbero arrivati in Italia 5,4 milioni di chili di miele importato, di cui oltre un terzo extra Unione europea. In un contesto segnato da cambiamenti climatici e difficoltà produttive, l’apicoltura veneta dimostra tuttavia vitalità e resilienza, portando avanti un’eccellenza regionale che va protetta e valorizzata». Sempre secondo i dati forniti da Coldiretti, nel territorio padovano a vegliare su oltre 15 mila alveari e 2.800 apiari ci sono più di un migliaio di apicoltori, in larga parte hobbisti, ma con un fatturato complessivo che supera i 30 milioni di euro all’anno e un qualificato manipolo formato da qualche decina di professionisti che garantiscono la maggior parte della produzione del miele locale. Secondo Roberto Lorin, presidente di Coldiretti Padova, «per sostenere un settore che coinvolge molti giovani e garantire il fondamentale lavoro delle api nelle nostre campagne è importante scegliere miele di origine nazionale, un’opportunità peraltro favorita dalla recente Direttiva Ue che ha introdotto un’etichetta ancora più chiara, anche se non è purtroppo ancora previsto l’obbligo di dichiarare l’origine del miele utilizzato nei trasformati, origine che solo alcune aziende dichiarano volontariamente». Secondo la normativa, l’etichetta deve riportare la parola “Italia” o “miele italiano” per il prodotto raccolto interamente sul territorio nazionale, e indicare “miscela di mieli originari della Ue” oppure “miscela di mieli non originari della Ue”, con il nome dei Paesi, se proviene da più Paesi dell’Ue o extra Ue.
Greenpeace ha lanciato una raccolta firme online e un appello per bandire l’uso di pesticidi dannosi per gli insetti impollinatori. Info sul sito www. greenpeace.org
Il miele dei colli Euganei vive alti e bassi. I dati 2024 hanno fatto segnare, rispetto all’anno precedente, un calo locale del 30 per cento del miele di acacia e addirittura del 60 di quello di tarassaco, mentre, come segnala Cia Padova, è rimasta invariata la produzione di miele di tiglio e millefiori, con una ripresa invece di quello di castagno. «L’ultima grande annata per il miele dei Colli – racconta Gloria Pagliuca dell’azienda Colle Rina, produttrice di miele con il marchio Il miele di Emma – è stata appena prima del Covid. Negli anni successivi, complice il clima non favorevole, siamo stati lontani da quei livelli. Il 2025 sembra finalmente migliore, ma non ancora come prima». Non solo il clima: per Pagliuca in tutto il Veneto il problema sono anche i trattamenti nei campi: «Se ne fanno troppi, anche per via della tanta umidità che richiede interventi per prevenire le malattie alle colture. Le api però soffrono, resistono fino al momento in cui crollano: e lo fanno tutte assieme, si perde l’intero alveare. Il problema sono le sostanze ma anche le tempistiche: se si tratta di giorno, quando le api sono fuori, ci sono più rischi. Cosa serve? Una maggiore attenzione e un contatto continuo e tempestivo tra gli attori che operano attorno a noi e alle nostre arnie». I colli Euganei, tuttavia, potrebbero essere un luogo ideale, per via della varietà della flora e dei microclimi. «Si fa miele di acacia, quest’anno è andata meglio dello scorso ma è stato comunque un raccolto scarso. Di solito c’è anche il miele di tarassaco, ma a causa delle piogge la fioritura è stata breve e non sufficiente per le api. In questi giorni e fino ai primi di luglio tocca al miele di castagno, ricchissimo di sali minerali e da valorizzare. I nostri nonni davano per merenda ai bambini un cucchiaio di olio dei Colli e uno di miele di castagno. Si tratta di zuccheri semplificati che fanno bene alla salute, soprattutto ai più piccoli». «A causa degli andamenti altalenanti della produzione – sottolinea il presidente di Cia Padova, Luca Trivellato – sempre di più oggi gli apicoltori sono spinti a diversificare l’attività per ottenere un ulteriore margine di guadagno. È un comparto di nicchia da valorizzare con azioni mirate: il riconoscimento Mab Unesco è un altro quid da spendere sul mercato».