Il saluto al vescovo Antonio. Un percorso di svolte guidate dal Signore

Un anno fa, alla festa di San Gregorio Barbarigo, il vescovo ripercorreva con i preti della diocesi il suo cammino. Dal seminario agli anni trascorsi a Roma, dal servizio diplomatico al ritorno in città per gestire un periodo denso di cambiamenti. «Quella da vescovo è un'esperienza che ha messo a dura prova la mia persona, facendo emergere doti ma anche carenze e difetti che prima non avevo percepito».Iscriviti gratuitamente al sito per leggere l'articolo.

Redazione

Improvviso silenzio nel teatro del seminario quando parte un video. In primo piano il vescovo Antonio. Si torna al 9 novembre 2007: ad Asiago il presbiterio diocesano si ritrova a convegno sul tema “Preti in un mondo che cambia”. In linea con l’esperienza della narrazione che ha contraddistinto la formazione proposta dall’istituto San Luca nell’ultimo decennio, anche il vescovo prende la parola e “narra” il suo essere prete e vescovo.

È la festa di San Gregorio Barbarigo del 2014: il vescovo apre il cuore ai suoi preti, racconta la propria esperienza, la scoperta di pregi e difetti, la fatica dell’episcopato, ma anche la capacità di cogliere le meraviglie del Signore. «Passare da prete a vescovo è un cambiamento profondo – narrava Mattiazzo ad Asiago – Quella di vescovo è un’esperienza che, per le alte responsabilità che comporta, le molteplici relazioni, il discernimento da compiere, le decisioni a volte difficili da prendere, gli impegni stressanti, l’esposizione pubblica al giudizio di tutti, ha messo a nudo e a dura prova la mia persona, facendo emergere doti ma anche difetti e carenze che prima non avevo percepito».

«È cambiata molto la mia percezione della realtà della chiesa – prosegue – da vescovo ho potuto vedere le meraviglie del Signore, l’azione discreta ma profonda e straordinaria dello Spirito e insieme anche le grandi miserie umane (…). Certamente essere vescovo ha allargato molto gli orizzonti e la mia visione della chiesa e me l’ha fatta amare di più, perché qualcosa di più penso di aver capito».

Dal 2007, un ulteriore passo indietro – 5 luglio 1964 – quando Antonio Mattiazzo è ordinato prete: siamo in pieno concilio Vaticano II, è un’epoca di cambiamenti, di attese, di subbugli, dentro e fuori la chiesa. Quali sono alcuni tratti particolarmente significativi di questo cambiamento di “stato” in un tempo così particolare? «Già negli ultimi anni di seminario – ricorda il vescovo di fronte al presbiterio riunito nel teatro del seminario – ricordo molto bene che c’era un’atmosfera diversa. L’Italia era uscita dalle macerie della guerra, si respirava qualcosa di nuovo, molta attesa e tanto ottimismo. Poi c’è stata, per me la scelta – del tutto inaspettata – da parte del vescovo Bortignon di mandarmi a studiare a Roma, alla Pontificia accademia ecclesiastica, allora chiamata Accademia dei nobili».

Una scelta che il vescovo accoglie con perplessità ma nell’obbedienza: «La prima obbedienza al proprio vescovo la fanno tutti i preti» ricorda sorridendo. Ma dopo un anno i dubbi rimangono: «Ma il vescovo era irremovibile: dovevo stare lì». È un momento chiave, dichiara Mattiazzo, «perché capii che dovevo fare affidamento solo sul Signore e su me stesso. Così feci la scelta di affidarmi al Signore e fu molto importante dal punto di vista spirituale».

All’Accademia pontificia Mattiazzo è il decano degli studenti: «Il Sessantotto l’ho vissuto in pieno. Gli studenti venivano da tutte le parti. Eravamo una comunità internazionale e molti non erano più abituati allo stile del seminario. Non si stava più ad alcune regole, c’era un’apertura nuova al mondo, alla cultura, alla società, a nuovi stili. Tra gli studenti c’era molta insoddisfazione e allora proposi ai miei compagni di trovarci, parlare e poi avrei fatto da portavoce al presidente». L’iniziativa suscitò molto scalpore nella Segreteria di stato, tanto che al confronto con don Antonio non andò il presidente dell’Accademia ma il sostituto della Segreteria di stato.

«Poco dopo partii per il Nicaragua, e in quell’anno Paolo VI a Medellìn fece un discorso ai campesinos che mi impressionò molto e che porto ancora dentro». Venticinque anni dopo, a mons. Antonio Mattiazzo, arriva un’altra telefonata. È vescovo da quattro anni, nunzio in Costa d’Avorio e Burkina Faso, ha già vissuto l’esperienza del Sud America, della guerriglia in Nicaragua e della dittatura militari in Brasile, affrontando difficili situazioni, a volte lavorando in incognito; ha avviato le prime comunità di base, è stato anche negli Stati Uniti e in Francia. Padova sembra lontana nel tempo. Ora è chiamato a tornare e a esserne pastore.

«Questa nomina mi ha fatto molto riflettere, è caduta proprio nel 25° di ordinazione. Ormai mi ero abituato a fare quel tipo di vita. Ero felice in Africa, era una chiesa in pieno sviluppo, in crescita». Ma i preti di Padova aspettavano il vescovo. C’era fretta. «Per me è stato un impatto e un cambiamento enorme, ma ho fatto un atto di fiducia e di obbedienza. Dovevo solo accettare quello che chiedeva il papa e fare quello che il Signore mi avrebbe suggerito. Ero abituato a leggere le situazioni e i segni dei tempi e in quell’anno rimasi molto colpito dalla caduta del muro di Berlino e dalla visita che Gorbaciov fece a Roma. Così nel febbraio 1990 organizzai a Padova il convegno “Vento nuovo dall’Est” e a seguire il primo viaggio in Ungheria, che mi ha aperto un grande orizzonte, eravamo di fronte a un cambiamento epocale. Poi ci furono i viaggi in Romania, Russia, Ucraina… Si avviò l’apertura con l’Est europeo e con il mondo ortodosso. Nel 1992 arrivarono i primi studenti del Est».

Un’attenzione pastorale vigile sulle situazioni nuove contraddistingue l’operato di Mattiazzo, convinto che la chiesa non debba essere «a rimorchio della società ma deve saperla interpretare, con uno stile di attenzione alle istituzioni, senza scendere a compromessi. Collaborazione sì, ma nel rispetto delle reciproche competenze». «Quello di vescovo – conclude – per me è stato un apprendistato molto serio, molto esigente» e così è nella vita del prete: «È vivendo la vita nella parrocchia, con gli incontri e le diverse situazioni che si matura veramente. Ma questo domanda un nucleo molto solido, una capacità di non essere sovrastati dalle cose».

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