Venerdì 1° agosto. Mancano pochi minuti alle 13 e la parrocchia dei Santi Pietro e Paolo all’Olgiata si è di fatto svuotata. Tra le tende del “Camping Padova” solo una manciata di giovani pellegrini padovani: in centinaia, dopo la celebrazione penitenziale e le confessioni a loro riservate, hanno già preso il regionale per Roma per l’ultimo pomeriggio tra piazze e colonnati prima di Tor Vergata.
Il vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla, ha appena finito di confessare, ultimo rimasto tra la quarantina di preti padovani sparsi dentro e fuori la chiesa: decine i giovani in fila proprio per lui, che non si sottrae. Un atteggiamento di disponibilità che non si ferma alle confessioni: per tutto il pomeriggio e per tutto il sabato mattina don Claudio gira tra i gruppi, risponde a domande, dialoga, scherza, partecipa a foto di gruppo e fotografa lui stesso, con un atteggiamento che oscilla tra il compiaciuto e l’orgoglioso.
Nove anni e tre giorni prima, il 29 luglio 2016, lo stesso vescovo Claudio annunciava ai giovani padovani (di allora) alla Gmg di Cracovia, tra Klimontow e Proszowice, l’indizione del Sinodo dei giovani della Diocesi di Padova.
Vescovo Claudio, cos’è cambiato da allora?
«Da allora sono cambiate le condizioni nelle quali i giovani – e i giovani cristiani – vivono. Già questa definizione può aprire delle riflessioni. Distinguiamo tra giovani cristiani e giovani non cristiani? Se dovessimo dare una lettura della presenza in mezzo a noi dei gruppi di altri Paesi, in particolare i francesi, che abbiamo percepito nella celebrazione iniziale di questo pellegrinaggio (domenica 27 luglio in Cattedrale a Padova, ndr), anche nei loro gesti e nei loro comportamenti al Giubileo, direi che forse ci incamminiamo verso un tempo in cui anche i giovani cristiani dovranno in qualche modo render ragione del perché sono cristiani. Questa condizione è un po’ differente rispetto a solo dieci anni fa: pensare di dover rendere ragione della propria fede agli altri amici che non hanno però questo dono, significa ripensare alla nostra proposta formativa educativa e renderla in qualche modo più significativa, più profonda, più vera. In questi giorni abbiamo percepito che c’è tanto desiderio da parte dei ragazzi di poter andare un po’ più in profondità e che il cristianesimo, il Vangelo e la fede in Dio sono dimensioni molto significative nella misura in cui vengono proposte in modo serio, in modo qualificato, non tanto per dire qualche cosa, ma nel dare una ragione anche all’annuncio che noi facciamo della nostra fede. E i ragazzi lo chiedono e forse la stanno chiedendo proprio come una esigenza legata alla loro vita».
Sembra di avere a che fare con giovani più convinti e più desiderosi di approfondire la loro fede…
«Sì. E percepisco anche un pericolo in questo, cioè il pericolo di costituire come un gruppo di eccellenza, come un’élite, mentre invece è molto importante che i nostri giovani restino in mezzo agli altri giovani. Certo che, per restare cristiani in mezzo a una società così come la conosciamo, occorrono ragioni molto più profonde. Questa ricerca, secondo me, è autentica e vera. E il risultato del Sinodo che ho indetto nel 2016 era stato quello di invitare e preparare ogni ragazzo per una professione di fede pubblica, cioè una sintesi dalla quale partire per affrontare la vita che comprenda ciò in cui credono, come lo credono, con chi credono, cioè chi sono loro come credenti».
Il Giubileo dei giovani è aperto con il Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici, segno di come la dimensione del virtuale e dell’informazione stia plasmando la cultura dei giovani. Cosa può fare la Chiesa per proporsi anche in questi ambienti?
«Deve farlo con il racconto della verità della propria esperienza, più che con strumenti ricercatissimi o speciali. Non possono sostituire il coinvolgimento personale, il rapporto a tu per tu tra due cristiani, il rapporto con una comunità. Però possono aiutarci, perché abbiamo tantissime storie da raccontare, non soltanto idee da annunciare o proclami, ma storie, storie bellissime, come è stato fatto anche durante questo Giubileo, nel giovedì pomeriggio in piazza San Pietro. Ci sono state raccontate delle storie, si sono presentate delle persone, e ci vogliono i mezzi adatti perché arrivi la verità, il racconto vero. La nostra storia ci porta a cercare di ragionare molto, ma ho come la sensazione che serva prima presentare le storie, confrontarsi e incontrarsi e dopo troveranno spazio le riflessioni e i ragionamenti».
Due mesi fa sono state annunciate le collaborazioni pastorali a Padova. Qual è lo spazio per i giovani?
«Spero che i giovani trovino spazio nei luoghi dove si crea e si progetta la pastorale. La collaborazione pastorale, in fondo, è un’organizzazione secondaria attraverso la quale aiutare le singole comunità. Come ricordato dal card. Zuppi, anche una piccola comunità è il segno della Chiesa che sta in mezzo alla gente. I giovani stanno aspettando di poterci essere come protagonisti. Ho la convinzione che se riusciamo a coinvolgere i giovani nel cammino di progettazione e di creazione della vita di una comunità, loro saranno molto più capaci di individuare le cose importanti di quanto non siamo noi adulti. Avranno più coraggio, più proposte, più capacità di indicarci delle strade che noi non abbiamo ancora immaginato».
Nel Giubileo dei giovani dedicato alla speranza, la Chiesa italiana ha dedicato tante catechesi ai temi della pace, della custodia del Creato, dell’impegno sociale e politico. Cosa potranno fare i nostri giovani dopo questo Giubileo in questi campi?
«Questi sono gli spazi della nostra missione di cristiani: come discepoli di Gesù dobbiamo considerarci missionari proprio negli ambienti di vita che dobbiamo attraversare non solo noi cristiani, ma con tutti gli altri amici. Sono gli ambienti che vanno dalla dimensione digitale e dall’intelligenza artificiale, dai problemi etici legati alla medicina, dal problema dell’ambiente, a quelli della guerra e della pace. Questi sono gli spazi dove i nostri giovani devono essere ascoltati e devono essere presenti come missionari. Noi a questo dobbiamo educare».
Il Giubileo che poteva benissimo non esserci e invece c’è stato. Al termine della messa di sabato 2 agosto, nel congedo finale dei pellegrini padovani dalla parrocchia dei santi Pietro e Paolo all’Olgiata, Giorgio Pusceddu della Pastorale dei giovani di Padova ha ammesso come Padova abbia «fatto veramente esperienza della Provvidenza del Signore».
Mesi di preparazione minuziosa, con la permanenza prevista in alcuni edifici scolastici di Cisterna di Latina, saltata appena quattro giorni prima della partenza: «Ognuno di voi aveva un banco assegnato dove avrebbe potuto posare il proprio zaino con il nome», ha raccontato Pusceddu, con un po’ di commozione.
Alla fine – proprio sul punto di annullare il pellegrinaggio – la ricerca su Google di uno spazio, la telefonata al parroco di Olgiata don Paolo Ferrari che chiede un’ora di tempo per pensarci. «Avevamo già dato la disponibilità a ospitare 150 ragazzi da Reggio Emilia ed ero molto preoccupato – ha raccontato lo stesso don Paolo – quando è arrivata la richiesta di Padova, per oltre mille posti in tenda, ogni preoccupazione è andata via».
Ha rivelato Giorgio Pusceddu come «in questo vuoto, in questo buio, il Signore ci ha proprio abbracciato, ci ha preso per mano e si è fatto vivo con un’infinità di combinazioni inaudite. Abbiamo sperimentato continuamente la logica sovversiva dell’amore del Signore».
Oltre mille tra giovani e accompagnatori sono partiti dalla Diocesi di Padova – chi a piedi, chi con i mezzi – per far parte dell’evento di certo più partecipato dell’intero anno giubilare. Con loro c’erano il vescovo Claudio e quaranta preti. Così ha preso vita una settimana indimenticabile, nella quale in molti si sono interrogati su loro stessi e sulla chiamata che li attende.
Un’esperienza unica di Chiesa universale che ora si fa semina nelle comunità e nelle collaborazioni pastorali