Chiude la manifestazione capitolina il film “Illusione” di Francesca Archibugi, con Jasmine Trinca e Michele Riondino, titolo che si muove su un binario giallo-poliziesco, mettendo a tema il dramma della tratta di donne e minorenni dell’Est ai palazzi del potere nel cuore dell’Europa. “Illusione” sottolinea ancora una volta il desiderio di sperimentazione della Archibugi, la sua predilezione per i temi sociali; al di là della densità e urgenza tematica, il film però non risulta del tutto a fuoco. All’Auditorium cast al completo per il dramma a tinte horror “Dracula. L’amore perduto” firmato Luc Besson, dal classico della letteratura di Bram Stoker. Uno sguardo introspettivo sulla nascita del principe dei vampiri, in aperto conflitto con Dio che gli ha “sottratto” l’amore della vita. Una storia di struggimento e dannazione, che tuttavia apre anche a una prospettiva di riconciliazione: traiettoria interessante, appesantita però da scivolate horror e da un uso del simbolismo religioso a volte gratuito. In cartellone anche il doc “Chiamami don Matteo. Zuppi il vescovo di strada” sul cardinale Matteo Maria Zuppi diretto da Emilio Marrese, con Bob Messini e Alessandro Bergonzoni.
“Illusione”
Negli ultimi anni Francesca Archibugi è stata una habituée alla Festa del Cinema di Roma. Nel 2022 ha inaugurato la manifestazione con “Il colibrì”, nel 2023 ha presentato qui la miniserie Rai “La Storia”, dall’opera di Elsa Morante. Ora chiude la 20ª edizione con il suo film “Illusione”, con protagonisti Jasmine Trinca, Michele Riondino, Filippo Timi, Vittoria Puccini, Francesca Reggiani e Angelina Andrei. Targato Fandango, Rai Cinema e Tarantula, il film è atteso nelle sale nel 2025-26.
La storia. Perugia, oggi. La quindicenne Rosa Lazar viene ritrovata quasi esanime in un fosso. La sostituta procuratrice Cristina Camponeschi è convinta che la ragazza sia finita nella tratta di adescamento e prostituzione che lega l’Europa dell’Est ai palazzi del potere della Comunità europea. Per accertare la verità ha bisogno che Rosa collabori, così fa pressioni sullo psicologo Stefano Mangiaboschi affinché l’aiuti a ricostruire la sua storia. L’uomo, però, è in difficoltà, perché la giovane presenta disturbi della personalità…
Scritto dalla stessa Archibugi insieme a Francesco Piccolo e Laura Paolucci, “Illusione” è un film che si muove su più terreni narrativi, tra poliziesco e giallo dell’anima, esplorando il dramma dello sfruttamento minorile e al contempo le fragilità dell’umano. Il film segue il sogno d’evasione della quindicenne Rosa, che punta sulla sua bellezza per abbandonare la povertà in cui vive con la madre in Romania e seguire le orme di una famosa modella conterranea ora a Parigi. I suoi sogni di gloria si spiaggiano però rapidamente quando viene avviata alla prostituzione negli ambienti della politica a Strasburgo, una caduta nelle maglie della malavita che la conduce in ultimo nella periferia di Perugia. Rosa viene salvata dalla polizia e affidata ai servizi sociali; a cercare di ricostruire il suo percorso fumoso è uno psicologo, Stefano, con cui però Rosa attiva un pericoloso transfert che ne mina la reputazione e fa emergere anche pagine poco chiare del suo passato. Chi però non sembra farsi depistare dagli atteggiamenti della ragazza è la sostituta procuratrice Cristina, che vuole a tutti i costi andare a fondo e scoperchiare il giro di prostituzione ramificato nella politica.
La Archibugi costruisce un film acuto e intricato, che mescola dramma sociale e disagio psicologico, ammantando l’opera di una fumosità funzionale a tenere compatti linea e pathos del racconto. A ben vedere, però, non tutto torna a livello narrativo, e alcuni snodi appaiono fragili e poco incisivi. Nell’insieme un valido film di denuncia, puntellato però da incertezze (anche nel tono, con superflui innesti umoristici) e da una sostanziale debolezza di copione. Complesso, problematico, per dibattiti.
“Dracula. L’amore perduto” (Cinema, dal 29.10)
Dall’opera letteraria di Bram Stoker (1897) il cinema ha attinto più volte, soprattutto per percorrere i sentieri del brivido. Capostipite “Nosferatu il vampiro” del 1922 di Friedrich Wilhelm Murnau, tra i più rilevanti la versione del 1992 firmata Francis Ford Coppola (“Dracula di Bram Stoker”). Alla 20ª Festa del Cinema di Roma il geniale regista francese Luc Besson – suoi “Nikita”, “Léon”, “Dogman” – porta la propria versione, dichiarando apertamente di non volersi concentrare sulla dimensione fantastica di matrice horror ma su una storia d’amore struggente. È nato così “Dracula. L’amore perduto” (“Dracula: A Love Tale”), film scritto e diretto da Besson con Caleb Landry Jones, Christoph Waltz, Zoë Bleu e Matilda De Angelis. Nelle sale dal 29 ottobre con Lucky Red.
La storia. Transilvania, XV secolo, il principe Vladimir accetta di andare in battaglia, convinto dal proprio vescovo. In sua assenza la moglie cade in un’imboscata nemica e viene uccisa. L’ira del principe non conosce tregua, al punto da vendicarsi del vescovo e minacciare Dio stesso. Decide di rinnegarlo e vivere abdicando alla sua anima. Diventa così immortale, una figura priva di umanità, un vampiro: si aggira per il mondo con la speranza di ritrovare il suo amore reincarnato…
“Il libro in sostanza è una storia d’amore” – dichiara il regista – “ma all’epoca della sua uscita la gente era affascinata dalla dimensione fantastica e dalla sete di sangue. Nel corso del tempo il personaggio è diventato un mostro mitico. Per me, tuttavia, la narrazione resta in primis una storia d’amore su un uomo in grado di aspettare 400 anni per rivedere l’unica donna che ama e che gli è stata tolta da Dio”.
Besson chiarisce subito il perimetro del suo racconto, della sua trasposizione dell’opera di Stoker. Non è del tutto interessato alla dimensione fantastica – anche se, a ben vedere, tracce ce ne sono abitando il genere gotico-horror – bensì al dramma personale di un uomo mutilato dall’amore della sua vita, mentre è spinto per motivazioni religiose ad aderire a una campagna bellica.
Al di là della traiettoria sentimentale, tratto portante del racconto, nel “Dracula” di Besson troviamo una seconda pista narrativa degna di rilievo: la parabola religiosa del principe Vladimir. Un uomo che arriva a disconoscere Dio, a rinnegarlo, perché lo ritiene responsabile della morte della moglie, aprendosi così alla corruzione del male e alla dannazione. Una corruzione cui però sembra non aderire nel profondo, e così in dialogo con un prete esorcista accetta di lasciarsi ricondurre a Dio.
Una prospettiva narrativa interessante e di certo non banale, che rivela la statura del regista francese, aspetto però che non mette del tutto al riparo il film da inciampi o deragliamenti nell’uso del simbolismo religioso, spesso insistito, esasperato e vacuo, secondo le banalizzazioni ricorrenti del genere horror.
Un film che si direziona, per temi e linguaggio, a un pubblico adulto. Complesso, problematico, per dibattiti.
“Chiamami don Matteo. Zuppi il vescovo di strada”
Dopo “Il Vangelo secondo Matteo Z. Professione Vescovo” (2019), il regista Emilio Marrese offre un nuovo ritratto del card. Matteo Maria Zuppi con “Chiamami don Matteo. Zuppi il vescovo di strada”, special screening alla 20ª Festa del Cinema di Roma. Il film racconta l’arcivescovo di Bologna all’indomani della fine del conclave, che ha portato al soglio di Pietro il card. Prevost, Leone XIV; un viaggio a ritroso nei dieci anni di Zuppi alla guida dell’arcidiocesi di Bologna (dal 2015) e il rapporto con papa Francesco.
Il regista Marrese coglie bene lo spirito di semplicità e genuinità che anima il card. Zuppi, il suo essere per la gente e tra la gente, con un’attenzione alle periferie, a chi vive nella povertà o chi cerca accoglienza.
Negli 85 minuti di durata, il film approfondisce soprattutto il legame tra il card. Zuppi e la città di Bologna; un racconto celebrativo in linea con lo spirito di inclusione e accoglienza del cardinale, e al contempo il grande attaccamento della gente al suo vescovo.
Impreziosito dalla partecipazione di Bob Messini e Alessandro Bergonzoni, “Chiamami don Matteo. Zuppi il vescovo di strada” è un documentario rispettoso, attento, profondo e ironico, in linea con l’atteggiamento estroverso e trascinante del card. Zuppi.
Un’opera celebrativa, un atto di “devozione” della sua comunità bolognese, senza essere però ruffiano o paludato. Consigliabile, semplice, per dibattiti.